Una Chiesa missionaria di speranza (Sant'Evasio 2006)

Affacciati ormai all’Anno del IX Centenario di questo Duomo, consacrato, come si sa, dal Papa Pasquale II il 4 gennaio 1107, ci incontriamo questa sera per l’annuale appuntamento nella festa del Santo Patrono, Evasio.
Questa festa si trova quest’anno in un crocevia di molti e suggestivi eventi: il recente Convegno di Verona sul cui esito ci siamo soffermati in questa stessa settimana nel Convegno Pastorale Diocesano; l’inizio imminente, come dicevo, del IX Centenario e, ancora, il terzo anno del Triduo preparatorio a questo grande evento, che abbiamo dedicato a questa nostra chiesa “in mezzo alla città”.
Dopo un’annata dedicata all’Eucaristia, centro focale del nostro progetto di chiesa e dopo l’anno dedicato al Vangelo da vivere e testimoniare, vogliamo ora vivere l’anno della Missione, compito irrinunciabile per una Chiesa che voglia essere davvero “in mezzo alla città”, come lo è da nove secoli, simbolicamente, il nostro Duomo.
È proprio da questo crocevia di avvenimenti che ricavo il tema di questa omelia che si ispira ai testi biblici appena proclamati.
Voglio parlarvi di noi, chiesa di sant’Evasio, impegnati in questo territorio e in questa città come “missionari di speranza”.
Noi, con il nostro Duomo, stiamo “in mezzo alla città”: e ci stiamo con l’Eucaristia che celebriamo e con il Vangelo che annunciamo, per essere “testimoni” e io dico “missionari di speranza”.
Abbiamo coscienza di essere inviati per questo.
Nella prima lettura abbiamo rievocato i dubbi e le perplessità dal profeta Geremia, chiamato dal Signore ad una missione impegnativa e drammatica nella sua città: quella Gerusalemme assediata dai nemici, i soldati di Nabucodonsor, divisa al suo interno per l’inettitudine dei governanti, votata allo sfacelo e alla distruzione, alla sconfitta, insieme nella deportazione a Babilonia.
Geremia teme per la sua fragilità di giovane inesperto, di fronte ad un compito così superiore alle sue forze.
E anche noi abbiamo ben mille ragioni di temere, sentendoci incapaci al compito di ridare speranza alla nostra città e ad un mondo che cambia, la cui difficile e compromessa cultura secolarizzata, individualistica, consumistica, ci sfida puntualmente.
Eppure anche a noi, come a Geremia, viene dato l’ordine di non desistere, anzi di andare coraggiosamente avanti nel compito missionario. Sono parole attuali, quelle che risuonano all’orecchio del giovane profeta: “Ecco metto le mie parole sulla tua bocca... Ecco oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni, per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”. (Ger 1.9-10).
Un compito sempre attuale, ma assai impegnativo, per una chiesa missionaria di speranza in mezzo alla città.
Di speranza ci parla anche l’Apostolo Pietro, nella sua prima lettera che, non a caso, è servita come “fil rouge” per il Convegno di Verona, sia nella sua fase preparatoria, che nel suo svolgimento.
Speranza radicata nel Cristo Risorto, come fin dai primi versetti della sua lettera ci lascia intendere l’apostolo quando dice che “il Padre ci ha rigenerati mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva”. (I Pt 1,3).
La radice, dunque, di ogni speranza è Gesù Risorto.
Di lui e di noi, ancora Pietro ci ha detto: “Voi lo amate, pur senza averlo visto (lui, Pietro, sì che l’ha visto, udito e toccato con le sue mani!) e ora, senza vederlo, credete in lui” (I Pt. 1-8).
È a partire da questo amore per Gesù che noi diventiamo, per lui, testimoni di speranza, obbedendo al suo mandato, affidato un giorno ai Dodici e ora alla chiesa apostolica che da loro discende.
Il mandato affidato ai dodici discepoli così come ci viene riferito nel cap 10 del Vangelo di Matteo di cui abbiamo proclamato alcuni stralci, è di piena attualità, come anche la vocazione di Geremia.
“Chiamati a sè i suoi discepoli diede loro potere sugli spiriti immondi (e quanti ce n’è in questa nostra società per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità “ (Mt 1,1,)
Ed ancora più esplicitamente dopo aver elencato il nome dei dodici (nomi che tutti ci rappresentano e sono come l’inizio dell’infinita litania dei Santi di cui siamo eredi, anche di sant’Evasio, dunque), il Vangelo di Matteo ci dice: “Questi sono i Dodici che Gesù inviò ordinando loro: “Strada facendo, predicate dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni”.
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt. 10,7-8).
Ecco tracciata la strada della missione.
Vi faccio notare un particolare: quel strada facendo: è anzitutto un’indicazione di metodo missionario.
Vuol dire che la nostra testimonianza missionaria deve uscire dalle sacrestie odorose di incensi e dal caldo ambiente delle nostre inveterate tradizioni, o peggio, abitudini. Bisogna uscire in mare aperto, come ci invitava Giovanni Paolo II dopo il grande giubileo. Citando ancora il Vangelo, quel grande missionario che egli fu ci consegnava un motto: “Duc in altum!” Prendi il largo!
Come dire, appunto, “strada facendo”.
È stato anche il messaggio del Convegno di Verona che ha proposto alle Chiese che sono in Italia una missionarietà a tutto campo: negli ambiti umani (le strade del mondo!): gli ambiti della fragilità e dell’affettività, del lavoro e della tradizione, dell’impegno sociale e politico entro gli orizzonti della cittadinanza.
Questo è il senso del nostro centenario: esso si riferisce sì ad un magnifico Duomo nove volte centenario attorno a cui è crescita la città degli uomini; ma trascende questo simbolo per indicare che la Chiesa di Casale, che siamo noi, deve saper stare nel cuore della gente, dentro i suoi problemi e le sue speranze, nel vivo dunque della vita familiare, culturale, sociale, politica.
No. Non ci lasciamo chiudere nei nostri splendidi templi come in musei solo da ammirare: non nelle nostre Sacrestie, nè dentro i recinti del privato.
Noi siamo fatti per il mondo, per l’uomo, per la città, di cui siamo e vogliamo essere concittadini e protagonisti di storie: la storia vera, quella della gente e non dei potenti, la storia degli umili e dei veri cittadini e non dei detentori, spesso abusivi, di ogni potere mediatico, e non solo, come oggi usa.
Siamo una chiesa di popolo, insomma. Con le nostre parrocchie disseminate sul territorio, con i nostri parroci, spesso eroici custodi del piccolo o grande gregge loro affidato; con le nostre aggregazioni di laici sempre più esplicitamente inviate nel cuore dei problemi e delle attese dell’uomo di oggi.
È stato più volte citato, anche nel nostro Convegno pastorale di questi giorni, inteso a declinare Verona nelle nostre esperienze, l’incipit della “Gaudium et spes”: esso è il sigillo autentico a questa nostra festa:
Eccolo “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi dei poveri soprattutto e di tutti di coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. (G.et S. n.1).
Così dunque vogliamo celebrare il nostro Santo patrono, che “strada facendo” come racconta l’antica “biografia” è stato martirizzato per la sua testimonianza a Cristo.
E proprio il Vangelo che abbiamo appena letto ne dava l’annuncio e la spiegazione.
“Ecco vi mando come pecore in mezzo ai lupi.... Vi consegneranno ai tribunali.... e sarete condotti davanti a governatori e se, per causa mia, per dare testimonianza ( Mt.10-16 e ss).
Le difficoltà dunque non ci spaventano: ci sono già state annunciate come a Geremia, come agli apostoli, come a Sant’Evasio.
Ma ci sorregge l’impegno affidatoci di essere testimoni e missionari di speranza, come ancora ci ha descritto il Vangelo: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Ecco il comando, ecco l’impegno.
Le categorie evangeliche e messianiche qui citate, sono ben traducibili nei cinque ambiti di Verona, cioé dentro la condizione umana del nostro tempo e della nostra gente che vive le fragilità delle molto ricorrenti povertà, precarietà e miseria; che è disorientata negli affetti e spesso allarmata (anche tra noi) per il lavoro che si annuncia minacciato e precario; che rischia di vedere naufragare la speranza di un futuro e di una cittadinanza compromessa o addirittura negata, come nelle derive dell’immigrazione e di ogni forma di emarginazione.
Cari amici, l’orizzonte è vasto e impegnativo.
“Strada facendo” in mezzo alla città degli uomini, dobbiamo essere Chiesa fedele al mandato missionario, e per questo dobbiamo sapere farci carico di tutta la nostra contemporaneità.
E se ci assale il dubbio di Geremia (non so parlare, Signore, perché sono giovane!) ricordiamo Evasio, missionario e testimone fino al sangue.
Lui ci traccia la strada, da questo suo Duomo che sta in mezzo alla città da nove secoli.
Amen

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