UN VOLTO, UN NOME, UNA SPERANZA

Ripartire da Cristo, come ci suggerisce il Papa,
per comunicare il Vangelo della speranza.


Mentre mi accingo a scrivervi questa lettera, miei cari amici e fratelli, ribollono attorno (sono i giorni centrali di settembre) le visioni apocalittiche che hanno sconvolto il mondo.
Mi accorgo che è perfino paradossale che, in presenza di avvenimenti che ribaltano presente e futuro, noi possiamo accingerci a parlare di speranza.
Proprio mentre il mondo sembra sprofondarsi nella disperazione (resta nella nostra memoria collettiva quel bianco sventolio di disperazione attraverso le sbarre della colossale prigione di fuoco, fumo e struttura d’alta modernità) noi, testardamente, vogliamo tornare a parlare di speranza.
Ma non siamo in contraddizione.
La speranza cristiana, infatti, fiorisce proprio nei momenti drammatici della prova.
Infatti per noi cristiani “Non è tanto il peccato che ci conduce alla perdizione, quanto piuttosto la mancanza di speranza” (S. Giovanni Crisostomo).
Torno a citarvi un poeta che mi è caro: Charles Péguy che sulla speranza ha scritto parole mirabili:
In quest’ora buia per tutti ho riaperto le pagine di un suo “quaderno”.
“La fede che preferisco, dice Dio,
è la speranza.
La fede non mi stupisce(....)
La carità, dice Dio, non mi stupisce(...)
Ma la speranza, dice Dio,
ecco quello che mi stupisce (...)
Che quei poveri figli vedano come vanno le cose
e che credano che andrà meglio domattina,
Che vedano come vanno le cose oggi
e che credano che andrà meglio domattina,
questo è stupefacente(...)
e io stesso ne sono stupito(...)
Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza
Non so rendermene conto.
Questa piccola speranza ha l’aria di non essere nulla.
Questa bambina speranza.
Immortale.
(Da “Il portico del mistero della seconda virtù” di Charles Pèguy).
Parliamo dunque di speranza, nonostante tutto.
La domanda insidiosa ci resta tuttavia in gola: ma davvero c’è ancora posto per la speranza?
È questa la prima riflessione che vi voglio proporre. Senza enfasi.
Senza retorica.

1) Perchè parlare di speranza?
Questa mia lettera ha solo una piccola, piccolissima ambizione: collocarsi in un solco tracciato prima dal Papa (nella “Novo Millennio Ineunte”) e poi da tutti noi vescovi italiani attraverso gli “Orientamenti Pastorali” presentati per il decennio ormai iniziato (“Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”).
È un po’ come una triplice cascata: dal Papa, ai vescovi, al vostro vescovo.
Una proposta a tutta la chiesa, per le chiese che sono in Italia, fino alla nostra chiesa diocesana casalese.
È un fluire di acque che vorrebbero irrigare i solchi delle nostre comunità in questo avvio del nuovo millennio.
Ora, sono proprio i vescovi italiani che, intendendo accogliere il messaggio del Papa che invita a”ripartire da Cristo” per il nuovo cammino dopo il grande Giubileo, scrivono, all’inizio del documento programmatico:
A tutti vogliamo recare una parola di speranza. Non è cosa facile, oggi, la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiali, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna.
C’è poi la tentazione di dilatare il tempo presente, togliendo spazio e valore al passato, alla tradizione e alla memoria. A volte abbiamo paura di fermarci per ricordare, per ripensare a ciò che abbiamo vissuto e ricevuto. Preferiamo fare molte cose, o cercare distrazioni. Eppure sono l’ascolto, la memoria e il pensare a dischiudere il futuro, ad aiutarci a vivere il presente non solo come tempo del soddisfacimento dei bisogni, ma anche come luogo dell’attesa, del manifestarsi di desideri che ci precedono e ci conducono oltre, legandoci agli altri uomini e rendendoci tutti compagni nel meraviglioso e misterioso viaggio che è la vita.
Vorremmo perciò invitare con forza tutti i cristiani del nostro paese a riscoprire, insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, i fili invisibili della vita, per cui nulla si perde nella storia e ogni cosa può essere riscattata e acquisire un senso. Ma dove potrà mai volgersi il nostro cuore per indicare prospettive reali e concrete di speranza a ogni uomo? (O.P n.3)
C’è un bisogno di speranza
È questa anche la mia domanda, come è questo anche il mio intendimento: a tutti voi, anch’io vostro vescovo, voglio “recare una parola di speranza”.
Scrive S. Agostino : “ Tenebrae nostrae sicut meridies erunt”,che vuol dire: Per noi cristiani le tenebre saranno luminose come il giorno. Di questa speranza c’è urgente bisogno per oggi e per domani, per noi e per il mondo.
Sarebbe facile dilungarsi sul bisogno di speranza che intravediamo nel presente del mondo.
Torno solo per una breve riflessione sulla “calda estate” che abbiamo vissuto: a luglio i fatti drammatici di Genova, a settembre l’apocalittico attacco terroristico al simbolo stesso del mondo occidentale.
Siamo rimasti tutti sconvolti e mentre scrivo, ancora sotto l’effetto choc di questo “settembre nero”, vado immaginando scenari che non so quanto risponderanno al momento in cui vi consegnerò questa lettera nella festa del nostro Santo Patrono, Sant’Evasio.
Ma al di là di queste cronache “estive” così piene di preoccupanti segnali di violenza, prepotenza e morte, un fatto emerge con grande chiarezza: davvero il mondo si è fatto come un “piccolo villaggio” dove tutti siamo coinvolti.
È l’immagine più semplice e immediata di quel fenomeno che nei mesi scorsi andavamo studiando sotto il nome complesso e complicato di “globalizzazione”.
E se a qualcuno di noi ciò poteva sembrare questione di intellettuali o di specialisti, ora tutti ci siamo accorti che la “globalizzazione” si può vivere sulla propria pelle, nel bene e nel male.
I vescovi ne parlano con lucidità negli “Orientamenti Pastorali”che ispirano il nostro impegno per questo inizio di millennio: affrontando “le sfide della globalizzazione” si constata che essa “amplia sì gli orizzonti della nostra vita, creando grandi e sempre più nuove opportunità, ma in realtà restringe quelle temporali, appiattendoci sul presente”.
E il “presente” è talmente carico di ansie, tensioni e ambiguità da generare, come in questi giorni, più paura che coraggio, più sconforto che speranza.
Ecco la questione di fondo che questa estate violenta ci ha posto sotto gli occhi impietosamente: quale futuro per una società che di tutto si nutre, tranne che di speranza?
Il sogno di Nabucodonosor
È tornata d’attualità l’antica icona del sogno di Nabucodonsor: lo ricordate?
Una grande statua, possente e invincibile: testa d’oro, petto d’argento, tronco di bronzo, gambe di ferro, ma piedi d’argilla.
Basta un sassolino che si stacca dalla montagna , colpisce i piedi fragili e il simbolo stesso della bellezza e della forza va in frantumi.
Se tornasse Daniele- il profeta che legge nel futuro- come commenterebbe questo sogno di potenza e di fragilità?
L’icona di Nabucondossor è una chiave interpretativa della storia umana: dagli imperi di allora a quelli di oggi.
Quando tutte le sicurezze sono fondate solo su potere e denaro, quando si pone a fondamento dell’esistenza solo ciò che è immediatamente utile e redditizio, quando si tende a stabilire solo sulla forza ogni rapporto di convivenza; quando ci si creano idoli e idolotti su cui poggiare le nostre speranze, è allora che tutto finisce con avere “piedi d’argilla” e non tarda a venire l’ora in cui un sassolino qualunque mette tutto in forse. E la rovina è grande, come per la casa costruita sulla sabbia.
Non è necessario esagerare nel pessimismo quando si attraversa un’estate come questa: alle porte del nuovo millennio.
Basta guardarsi attorno con sufficiente realismo. La speranza non è più di casa tra noi. Almeno così sembra.
C’è un difetto di speranza?
E ciò non solo per effetto dei “macroavvenimenti” . Perfino nel piccolo delle nostre famiglie e dei nostri quartieri e villaggi, la speranza sembra fare difetto.
Non è necessario guardare alle tristi condizioni di intere nazioni e continenti, per farsi prendere dai morsi della paura e della disperazione: disperante è ad esempio l’evidente povertà dell’Africa dove, di conseguenza, la peste dell’AIDS semina morte assai più delle pesti storiche e letterarie a cui siamo abituati.
E ancora una volta emerge prepotentemente l’immagine di una disperazione cosmica nel sottosviluppo in cui miliardi di uomini e di donne trascinano un’esistenza votata allo sterminio, mentre i ricchi epuloni della moderna società del benessere (e noi sediamo alla loro mensa) si lasciano sfuggire soltanto le briciole, con il falso e spesso presuntuoso gesto della beneficenza.
Ma proprio perché di fronte a questi orizzonti mondiali ci prende il senso dell’impotenza e dell’ineluttabilità, finiamo col ripiegarsi sui nostri angusti problemi, trovando ragioni di insicurezza, di sconforto e spesso di disperazione perfino dentro il nostro ostentato benessere.
Come spiegare, infatti, il tristissimo segno del suicidio che serpeggia nel cuore e nelle intenzioni dei nostri giovani che, in apparenza, hanno tutto e non sono contenti di nulla?
Come spiegare l’ossessionante paura di uomini e donne che, nel fulgore delle loro giovani esistenze, non hanno più il coraggio di coronare il loro amore con l’accoglienza di nuove vite, così che siamo caduti in un vortice negativo che assomiglia ad una specie di generalizzato suicidio della nostra stessa società.?
E che dire della fuga nei paradisi assurdi della droga e di ogni altra evasione artificiale che ad altro non conduce che ad uno stordimento collettivo e ad una alienazione che crea disimpegno e caduta di ogni idealità?
Tra pessimismo e disfattismo
E così che, poco per volta, si inocula in molti di noi, che pure viviamo sostanzialmente in un benessere generalizzato al limite dell’opulenza, il senso di una profonda scontentezza: stiamo bene, ma abbiamo sempre più acuta coscienza di star male.
“Tre sono gli atteggiamenti dell’uomo di fronte al futuro: disperazione, presunzione, speranza”. ( Don Bruno Forte).
Il pessimismo, così, serpeggia. E con esso anche un certo disfattismo.
Perfino nella nostra città e in questo fortunato territorio, che paragonato a tante altre situazioni sociali del mondo dovrebbe quasi essere considerato un “isola felice”, va serpeggiando subdolo un senso di insicurezza per il futuro e vorrei quasi dire di autolesionismo: frutto evidente di una condizione in cui la speranza è in scacco.
Sono queste le ragioni per cui sento il dovere di invitare la nostra Chiesa ad essere impegnata, qui tra noi e nella nostra società in cui viviamo, a “recare una parola di speranza”.
E ritorna così la domanda da cui siamo partiti stimolati dalla riflessione dei vescovi italiani:
“Ma dove potrà mai volgersi il nostro cuore per indicare prospettive reali e concrete di speranza? (O.P. n.3).

2) Un Volto, un nome
Gli “Orientamenti Pastorali”dei vescovi italiani attingono una risposta (come e che altro potrebbero fare?) dalle Sacre Scritture.
Ecco l’incipit della Prima Lettera dell’Apostolo Giovanni che ci viene in soccorso per riattivare, sotto la cenere, la flebile fiamma della speranza.
“Ciò che era da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1,1-4).
Ecco una Parola che conforta.
Chi ha udito e visto, contemplato e toccato Gesù Cristo, Verbo della Vita - e Giovanni è, appunto, colui che ha visto sente l’impegno di comunicare questa folgorante esperienza, “perché la nostra gioia sia perfetta”.
Questa infatti,dicono i vescovi, “è una via che conduce alla speranza e alla gioia”.
“Permette, infatti aggiungono, che gli uomini possano trovare un senso nella tribolazione e nella sofferenza, confortandosi e perdonandosi a vicenda”. (O.P. n.4).
“Per questo, concludono i vescovi in questo n. 4 degli Orientamenti, ci pare che il compito assolutamente primario per la Chiesa, in un mondo che cambia e che cerca ragioni per gioire e tornare a sperare, sia e resti sempre la comunicazione della fede : della fede in Gesù, nel suo nome di salvezza”.
Non è facile questo passaggio: c’è il pericolo che assomigli ad una scappattoia o ad una via d’uscita facilona e superficiale: una frase fatta, insomma, qualcosa di già visto e di già sentito: quasi una vecchia ricetta che ha visto consumarsi la sua originalità in questo “mondo che cambia”.
Evitare questo rischio è importante.
Bisognerà meditare a lungo e con sincerità la doppia proposta che dal Papa e dai vescovi viene a noi, a conclusione del Grande Giubileo.
Il ricorso a Cristo, il ripartire da lui tenendo fisso lo sguardo sul suo volto non è, nell’intendimento di questi preziosi documenti, una “uscita di sicurezza”, tutt’altro.
È una proposta seria, impegnativa, fondata.
Quando l’apostolo Pietro è chiamato a rendere ragione ai “capi del popolo” della guarigione della storpio alla “Porta bella” del Tempio, ha una risposta folgorante che illumina anche noi, duemila anni dopo.
“In nessun altro....”
“La cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, è diventata testata d’angolo
In nessun altro c’è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (Atti 4, 10-12).
Il testo è limpido, anzi perentorio.
Anche allora si cercava la salvezza. Anche allora c’era bisogno di speranza: e lo storpio che sedeva alla “Porta bella” del tempio è bene un simbolo di questa umanità che, nei tempi che cambiano, sembra sempre più seduta per terra, nella disperazione e nello sconforto, alla ricerca spasmodica di ragioni nuove per cui sperare.
Il rischio corso allora è ancora quello di oggi: di credersi costruttori di futuro e di civiltà, potendo fare a meno di questa “pietra d’angolo”.
“In nessun altro c’è salvezza”.
E ci pare proprio che lo stiamo sconsolatamente sperimentando.
Come fuochi fatui ad una ad una ,si sono spente molte fiammelle di speranza accese dai “costruttori”: ora il progresso scientifico e tecnologico, ora i “lumi della Ragione”, ora la “dittatura del proletariato” ora le rivoluzioni, borghesi o operaie che fossero, ora lo strapotere delle armi o la garanzia del benessere.
Ma la pietra che i costruttori hanno scartato è ancora lì: unico solido fondamento di ogni. nostra speranza.
“Non c’è altro nome sotto il cielo.....”
Questa pagina biblica risuona oggi di grandissima attualità.
Ce lo ricordava, in forma decisa e polemica, la Dichiarazione “Dominus Jesus” e ce lo ribadisce, dopo il Giubileo, il Papa:”Ripartire da Cristo”, se mai ci fosse occorso di averlo “scartato”.
“Gli ha dato il nome....”
Un nome, un volto: Gesù, nostra speranza.
Nelle due espressioni- il nome, il volto- è bene adombrata questa speranza, che è per noi e per il mondo, Gesù Cristo “ieri, oggi e sempre” (Ebr.13,8)
Il Nome appella alla forza della persona che lo porta e il Volto rimanda alla sua identità.
L’icona cristologica forse più autentica, quella che ci giunge attraverso la lettera di Paolo ai Filippesi- canta in effetti:
“Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nelnome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore ( Fil 2,9-11)
“Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo”
Ma questo nome ha un volto:è un Volto.
Quello che, brancolando nelle tenebre della sua disperazione, l’uomo di ogni tempo cerca “come a tentoni”.
Vengono alla memoria reminiscenze scolastiche, piene di fervore poetico.
“Movesi il vecchierel canuto e biancho (....)
et viene a Roma, seguendo ‘l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:
(Da Francesco Petrarca: Il Canzoniere, sonetto n. XVI).
E anche l’immortale Dante Alighieri si era lasciato suggestionare da questo struggente bisogno di vedere quel Santo Volto che i pellegrini del suo tempo andavano ricercando tra mille peripezie:
“Qual è colui che forse di Croazia
viene a vedere la Veronica Nostra
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
«Signore mio Gesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?»
(Da Paradiso, XXXI, vv 103-108).
Ma soprattutto ci viene incontro la prosa altissima di Agostino, il grande cercatore del Volto.
“Ti ho cercato, Signore,
e ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto.
Per questo ho molto discusso e molto faticato.
Signore mio Dio
Mia unica speranza
ascoltami benignamente,
non permettere
che desista dal cercarti,
per stanchezza,
ma sempre cerchi il tuo volto
con ardore”
(Sant’Agostino, De Trinitate, XV, 28 e ss).
Cercando il Suo volto
Sull’onda di queste emozioni,che la storia cristiana conserva come in uno scrigno prezioso, anche noi ci confortiamo a vicenda nel cercare questo volto, nostra unica speranza.
Sia la Lettera del Papa che gli Orientamenti dei Vescovi dedicano ampio spazio al tema del Volto di Cristo da contemplare e del suo Mistero da meditare.
Vi rimando a quelle pagine, mentre vi anticipo che avremo ancora due occasioni nell’Anno Pastorale per tornare insieme su questo tema.
Intendo infatti scrivervi ancora due Lettere Pastorali, brevissime, queste.
Una per l’Epifania, l’altra per la Domenica in Albis.
Saranno lettere così brevi da poter essere lette in tutte le parrocchie a tutte le Messe in quelle due giornate di festa.
Per l’Epifania vi parlerò del Volto: il “Volto del Figlio” che nascendo dalla Vergine è manifestato alle genti come il “Dio con noi”.
Per la Domenica in Albis vi parlerò del Nome: quel “Nome del Risorto” in cui solo c’è salvezza e verso il quale tutta la storia umana è protesa “donec veniat”, finché Egli ritorni.
Così spero di sostenere lungo tutto quest’anno la mia e la vostra fede in Cristo, nostra speranza.

3) Ma come parlare di Lui alla gente di oggi?
Come comunicare il suo Mistero?
Questa è la sfida pastorale che ci attende nel prossimo decennio, il primo di un nuovo secolo e millennio.
Come comunicare speranza nella desolata landa della disperazione umana: progetto ambizioso quanto mai.
Ma questo è il progetto cristiano, questa è l’urgenza missionaria a cui la Chiesa non può sottrarsi: e noi, in essa.

Anche nella Pastorale “la speranza è far fronte”. (Georges Bernanos)
Cerco di individuare, in questa “selva” come tre sentieri attraverso i quali una così ardua ma esaltante comunicazione possa camminare spedita verso la gente che attende segnali di speranza.
Dentro la vita
Il primo sentiero, mi pare di capire, è proprio la vita: dentro la vita, comunichiamo Cristo speranza.
Dentro la vita, vuol dire che siamo disposti ad assumere interamente la condizione umana, come ha fatto il Verbo che si è fatto carne.
Non salteremo via nulla di ciò che è la vita della gente: non le gioie, non le speranze, non le tragedie, non le disperazioni.
Solo dentro a tutto ciò che è umano è possibile comunicare oggi il Vangelo della speranza.
Questo è l’insegnamento della “Gaudium et spes” il documento conciliare che più di tutti ha incarnato, perfino nel suo titolo, l’ansia di comunicare “gioia e speranza”.
Il testo conciliare, a cui non mi stanco di richiamarvi come a lettura meditativa e a fonte di ispirazione, incarna il messaggio della salvezza dentro la condizione nell’uomo e della comunità degli uomini, leggendone le attese e le speranze dentro l’attività dell’universo, in quell’orizzonte che tanto affascina l’uomo contemporaneo e cioè il suo gigantesco progresso culturale, civile, sociale, economico, scientifico.
Qui, in un dialogo reciproco con il mondo contemporaneo, la chiesa esercita il suo mandato: offrire in Cristo Risorto la chiave di lettura degli enigmi e delle contraddizioni della condizione umana, nel nostro tempo.
È una chiave ermeneutica preziosa e innovativa, a cui dobbiamo tornare ad attingere se vogliamo davvero “comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”.
Penso, e lo faccio in piena sintonia con gli “Orientamenti”, anzitutto a due ambienti squisitamente trasparenti: i giovani e la famiglia.
Dentro il mondo giovanile e dentro i travagli delle nostre famiglie è urgente immergersi per comunicare la speranza di Cristo.
Si fa spesso tanta retorica sul mondo giovanile e si fanno molte lamentazioni sulla crisi della famiglia.
Noi cercheremo di coltivare una corretta empatia: condivideremo, cioè anzitutto con i nostri ragazzi e giovani e con le loro famiglie proprio quell’atteggiamento così ben descritto nell’incipit mirabile della “Gaudium et Spes”.
Rileggiamolo ancora insieme:
“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. (Gaudium et Spes n.1).
Questa sintonia profonda con i giovani e la famiglia è il canale privilegiato che la nostra pastorale intende assumere per il prossimo decennio.
Vi rimando ai preziosi numeri 51 e 52 degli “Orientamenti”: assumiamo integralmente nella pastorale della nostra chiesa quegli indirizzi, dichiarando esplicitamente che anche la nostra Diocesi “desidera assumere l’accompagnamento della famiglia come priorità di importanza pari, in questi tempi, a quella della pastorale giovanile (O.P.n.52).
È questo un segnale che ci fa intravedere la porta da percorrere dentro la condizione umana, dell’uomo e della donna, del giovane e della famiglia, del povero e dell’ultimo, con l’impegno di stare al passo di una società che troppo spesso premia e promuove solo chi è bello, forte, coraggioso, ricco e potente.
La Chiesa, la nostra Chiesa, vuol parlare di Gesù e del suo Vangelo, anzitutto trovandolo in compagnia della gente, assumendo l’icona della lavanda dei piedi e il progetto di Chi è in mezzo a noi che è messo in noi “come Colui che serve”. (.....)
“Sentirsi, come dice ancora la Gaudium et Spes, “intimamente solidali con il genere umano e con la storia..... significa mettere le premesse per una pastorale di condivisione e di solidarietà con tutti, perché a tutti siamo debitori dell’annuncio di speranza che è Cristo”.
Esemplifica bene questo atteggiamento la conclusione del numero 52 degli “Orientamenti” a cui stiamo ispirando la nostra progettualità pastorale.
Dice :
“Per questo contiamo molto sulla solidarietà tra le famiglie, ma anche sulla creazione di nuove forme ministeriali tese ad ascoltare, accompagnare e sostenere una realtà dalla quale molto dipende il futuro della Chiesa e della stessa società. Le nostre parrocchie dovrebbero essere sempre più luoghi di ascolto e di sostegno delle famiglie in difficoltà, avendo ben chiaro che la medicina dell’amore fraterno e della misericordia è l’unica in cui la Chiesa creda fermamente. A questo fine, una delle scelte da compiere è quella di riuscire a stabilire, da parte delle comunità cristiane, attraverso i presbiteri, i religiosi e gli operatori pastorali, rapporti personali con ogni famiglia – sia che frequenti la Chiesa sia che non la incontri mai – in un tessuto relazionale nuovo, veramente capillare.
In questo come in altri ambiti della pastorale è particolarmente importante il contributo che le donne potranno portare affinché la Chiesa assuma un volto diverso, più sensibile e più umano. Non si dà pienezza di umanità senza che uomo e donna si esprimano liberamente e pienamente, secondo i rispettivi doni”.
Una speciale attenzione, tuttavia, pur non tralasciando la priorità del mondo giovanile e familiare, anzi leggendola lì dentro, deve essere la preoccupazione dei poveri e degli ultimi.
E non solo con un atteggiamento assistenziale, bensì con uno spirito di piena condivisione e di coraggiosa promozione.
Come è possibile annunciare speranza senza farsi carico delle sacche di emarginazione, umiliazione, sconforto di tanti nostri fratelli?
Come dare segni di speranza, senza accorgersi che, alla porta della nostra opulenza che arriva spesso allo spreco, bussano i “poveri Lazzari” della Parabola di Gesù?
Una Chiesa accogliente, che diventa sorgente di vera cristianità, è la più solare dimostrazione che la speranza è possibile, anche nelle profonde contraddizioni del nostro tempo.
Stare con la gente, condividere il cammino dei poveri, farsi carico degli immigrati, questo è il sentiero della speranza che dobbiamo intraprendere.
Nella via della bellezza
Il secondo sentiero che desidero tracciarvi può sembrare a prima vista in contraddizione col primo.
Voglio dire che la sfida di oggi, cioè quella di comunicare il Vangelo di Gesù, nostra speranza, in una cultura distratta da mille interessi e nel cuore di una civiltà pragmatica ed egoista, passa attraverso quel singolare veicolo che attinge alle corde profonde del cuore e dell’intelligenza umana: la via della bellezza.

Il Papa nella sua lettera agli artisti cita Dostojevski, senza nominarlo.
Il grande romanziere russo ha scritto una parola mirabile al riguardo, facendo dire a un suo personaggio che: “il mondo sarà salvato dalla bellezza”.
Per un letterato e per un poeta, forse, la cosa sembra scontata. Ma dobbiamo convincerci anche noi.
E voglio dire che se c’è qualcuno che ha nella sua bisaccia una simile risorsa è proprio la Chiesa.
In duemila anni di storia cristiana il Vangelo ha camminato sui sentieri dell’arte: la musica e la poesia, le grandi icone e i cicli pittorici, l’architettura della chiesa e le opere d’arte della scultura hanno, per secoli, illeggiadrito di bellezza le attese della gente.
E non, come qualcuno insinuava,per pure ragioni consolatorie. Ben di più: per quell’innato bisogno di comunicare il Mistero nei linguaggi d’arte e di poesia che soli lo lasciano trasparire, come raggio di sole attraverso cristalli purissimi.
Abbiamo bisogno della bellezza perché essa è strada privilegiata al Mistero.
Potremmo fare molti esempi, ma limitiamoci (e non per puro campanilismo) al Nartece della nostra antica cattedrale, recentemente recuperato.
In questo grandioso e suggestivo spazio d’arte è come concentrato il messaggio della bellezza come via al Mistero di Dio e di Cristo.
Nei secoli di un Medioevo che solo gli ottusi possono continuare a chiamare “buio”, splendono capolavori d’arte come il nostro: perché?
Erano poveri anche allora e forse più di noi. Erano sconfortati e disperati, spesso ben più di noi.
Ma proprio, attraverso l’esagerato grandioso cantiere del tempio dedicato al Santo Patrono, rifioriva la speranza e zampillava, nella speranza , la gratuità della Grazia.
Bisognerebbe andare a rileggere quel capolavoro cristiano che è “l’Annuncio a Maria” di Paul Claudel. Pierre de Craon, santo e peccatore, che innalza cattedrali per il popolo di Francia, racconta del grande tempio che stanno innalzando a Rheims sul luogo dove, scavando, è affiorata la tomba antica della piccola martire: Giustizia.
“Nel mutar corso alle acque di una bolla sotterranea durante i lavori per le fondamenta, abbiamo trovato la sua tomba con questa epigrafe su una lastra di pietra spezzata in due: Iustitia ancilla Domini in Pace. Il piccolo fragile cranio era frantumato come una noce- una bimba di otto anni era- e qualche dentino ancora si vedeva nella mascella .Tutta Rheims è in esaltazione.
Davvero, le grandi Cattedrali cristiane si innalzano al cielo, ma le loro fondamenta - come la nostra- è sulla tomba dei martiri: essi - la piccola fragile Giustizia o il grande vescovo Evasio - sono le bolle d’acqua novella che zampillano dalle nostre aride zolle.
E la luce che emana da esse può illuminare anche il nostro Nartece più del sole che ora vi penetra, libero, ogni giorno e meglio della luce soffusa che, di notte, ne esalta le nervature e ne ovatta la bellezza .E che cos’è il Nartece se non un segno sacro di bellezza per penetrare il Mistero del Dio vivente?
Nel discorso di inaugurazione che il Card. Martini aveva preparato per noi e che ci ha gentilmente inviato è detto bene:
“Il sacro è una struttura essenziale della religiosità. L’esperienza umana di Dio passa ordinariamente attraverso simboli e cose che non sono di Dio. E questi simboli, queste cose, questi gesti, parole, luoghi, diventano evocatori del divino. Diventano oggetto di venerazione, di rispetto, di timore. Vengono separati dall’uso profano e diventano ‘sacri’”.
Questa è una via privilegiata per “comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” la via dei segni della bellezza e quindi del Mistero: essa tocca i cuori, esalta le passioni, innamora gli animi.
È struggente la parola dell’arte e l’uomo di ogni tempo non può resistervi.
Ma bisogna amarla questa via, bisogna percorrerla, con fiducia e coraggio.
La bellezza affascina, ma guai ad appiattirla nella sciattezza, seppellirla sotto la polvere e l’incuria, a tradirla con la paccottiglia degradante e insignificante di un consumismo commerciale e goffo.
Abbiamo tra le mani una splendente via di comunicazione della fede: l’arte cristiana di tutti i secoli. Abbiamo un enorme patrimonio di bellezza, capace di parlare all’uomo d’oggi con la suggestiva alternativa al gusto piatto che domina molta comunicazione massmediale.
Non sciupiamo, per incuria, per rilassatezza, per indifferenza, le grandi meraviglie d’arte di cui si è nutrita la tradizione cristiana in ogni secolo.
Il Nartece restaurato e l’intera Cattedrale che via via sta avviandosi a recuperare tutto il suo splendore è una pista aperta, un sentiero tracciato.
Il nostro bel Monferrato ha un po’ dovunque, da Crea ad ogni collina, segnali di una bellezza e di uno splendore che attendono solo di essere meglio interpretati come canali per comunicare il grande messaggio: gioia e speranza nel canto della bellezza.
Verso la santità
Ma andiamo oltre; c’è un terzo sentiero: lo diciamo provocatoriamente e coraggiosamente, come fa il Papa ad ogni occasione.
“Il miracolo sarebbe la santità” così genialmente ha scritto il teologo von Balthasar, quando affrontava la via difficile per comunicare il Vangelo, oggi.
I santi, infatti non hanno mai fatto fatica a trovare la strada giusta per penetrare nel cuore del loro tempo.
I giganti della storia cristiana, Agostino o Tommaso che fossero, non hanno subito passivamente la paralizzante paura di non farcela.
E vicino a noi uomini come Rosmini e il Cottolengo e Don Bosco, hanno vissuto tempi ben più calamitosi dei nostri.
Fino a Padre Pio e Papa Giovanni, oggi Beati, e Madre Teresa, presto Beata e Santa, la storia della santità cristiana è decisamente vincente.
Basta, dunque, con le lamentazioni sulla nequizia dei tempi e sull’impermeabilità alla Parola e alla fede della nostra gente e del nostro tempo. Basta con le lamentele e gli scoraggiamenti.
Una parola del curato d’Ars può aiutarci a capire: “L’esperance c’est elle qui fait le bonheur sur la terre” . (La speranza: è lei che porta felicità sulla terra).
“Il miracolo sarebbe la santità”
È un miracolo alla portata di tutti, perché tutti vi siamo chiamati.
Il Papa, nella “Novo Millennio Ineunte” pone questa priorità sopra tutte le altre; Scrive infatti:
In primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quello della santità”. (N.M.I n.30)
Ricordare questa elementare verità, ponendola a fondamento della programmazione pastorale che ci vede impegnati all'inizio del nuovo millennio, potrebbe sembrare, di primo acchito, qualcosa di scarsamente operativo. Si può forse « programmare » la santità? Che cosa può significare questa parola, nella logica di un piano pastorale? In realtà, porre la programmazione pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze. Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l'inserimento in Cristo e l'inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all'insegna di un'etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno: « Vuoi ricevere il Battesimo? » significa al tempo stesso chiedergli: « Vuoi diventare santo? ». Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5,48).
Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni « geni » della santità. Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con convinzione questa « misura alta » della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione. ( Da N.M.I n.31).
L’espressione “misura alta” è molto incisiva; chiede di non appiattirsi sulla mediocrità, chiede di mirare in alto.
Anche scrivendo ai giovani il messaggio per la G.M.G di Toronto il Papa insiste sulla “misura alta” . Scrive:
“Cari giovani, nulla vi accontenti che stia al di sotto dei più alti ideali! Non lasciatevi scoraggiare da coloro che, delusi dalla vita, sono diventati sordi ai desideri più profondi e più autentici del loro cuore. Avete ragione di non rassegnarvi a divertimenti insipidi, a mode passeggere ed a progetti riduttivi. Se conservate grandi desideri per il Signore, saprete evitare la mediocrità e il conformismo, così diffusi nella nostra società.
Noi abbiamo un modello per i nostri giovani e per tutti noi. Il Papa nel corso dell’anno giubilare ha proclamato l’eroicità delle virtù del Venerabile Casimiro Barello, un giovane anticonformista che nel secolo scorso ha scalato in breve (è morto giovanissimo) le vette della santità, senza compiere gesti straordinari, anzi vivendo una condizione umana molto umile, povera e dimessa: la condizione del pellegrino e del mendicante. Ma con una dedizione alla preghiera (e in particolare all’Adorazione Eucaristica) e alla carità che il Papa ha giudicato “eroica”.
Nel nome di Casimiro anche noi camminiamo verso “la misura alta della vita cristiana ordinaria”: questa sarà la strada per compiere a pieno la missione di “comunicare il Vangelo” anche in questo tempo distratto e indifferente.
Sono sempre stati i santi quelli che hanno fatto camminare la chiesa attraverso i tempi più bui e nelle condizioni più disastrose.
I santi e la santità: ecco una questione che ci intriga e ci interpella.
Come scriveva Bernanos:
“La nostra chiesa è la chiesa dei Santi:, chi non vorrebbe avere la forza di correre questa incredibile avventura?
Infatti la santità è un’avventura, e anche l’unica avventura possibile...”
(Da: “L’eretica e Santa Giovanna”).
Ritroviamo l’eco delle parole conclusive degli “Orientamenti Pastorali” dei vescovi:
“La chiesa ha bisogno soprattutto dei santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio, manifestatosi in Gesù Cristo”. (O.P.n 63).
E aggiungo, confortandoci nel cammino che dobbiamo intraprendere:
“È questa la via che porta alla fecondità: la Chiesa umile e serva che scende accanto agli uomini, soffrendo con loro in ogni loro debolezza, può trasmettere davvero il Verbo della vita fino a far innovare la speranza e la gioia nel cuore degli uomini (O.P n 64).
In cammino con Maria
Siamo alla conclusione.
Chiamati a tener fisso lo sguardo sul volto di Gesù, per saper portare la sua gioia al nostro tempo, ci accorgiamo che quel volto è come riflesso in quello di Maria.
Il grande Alighieri l’aveva intuito, con l’acume e la sensibilità dei poeti, indicando in Maria “la faccia che a Cristo più si somiglia” (Paradiso XXXII, 85-86).
Guardando in volto la Madre ci sarà come svelato, nella luce, il volto del Figlio: “Sola ti può disporre a veder Cristo” (Paradiso, XXXII, 87).
E così sarà del Nome.
Anche del Nome di Maria infatti fiduciosamente cantiamo:
“nome dolcissimo, nome d’amore”.
Volto e nome di Colei che salutiamo “vita, dolcezza, speranza nostra”.
“Un volto, un Nome, una speranza”: il titolo di questa lettera trova la sua mirabile sintesi in Maria, alla quale affidiamo filialmente il nostro cammino, Lei che dal Monte Santo di Crea protegge il “popol fedel”.

+ Germano, Vescovo

Casale Monferrato, 12 novembre 2001
Festa di Sant’Evasio, Patrono della Diocesi


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