OLTRE LA PORTA

Carissimi tutti, amici e fratelli.
4 gennaio 2001: una data simbolica per la nostra chiesa casalese.
Questa sera si conclude in Cattedrale il Giubileo del 2000 e io voglio consegnarvi questa lettera proprio in quest’ora.
È un’ora grande.
Con sincero affetto, ricordo che due anni fa, nella notte fra il 3 e il 4 gennaio, dopo aver celebrato i Primi Vespri della festa della Cattedrale, spirava serenamente il nostro caro vescovo Carlo Cavalla.
Il 4 gennaio è l’anniversario della prima dedicazione del nostro Duomo, allora Chiesa capitolare di Sant’Evasio: era infatti il 4 gennaio 1107 quando il Papa Pasquale II onorava con la sua presenza il glorioso capitolo di Sant’Evasio e ne consacrava la Basilica.
Ogni anno il 4 gennaio noi celebriamo, ricordando questo antico anniversario, la Festa della Cattedrale.
Ed è in questa simbolica data che chiudiamo solennemente l’anno del Giubileo che ha visto questa nostra stupenda Cattedrale al centro di un pellegrinaggio popolare, partecipato, festoso.
Non avevamo scelta migliore per chiudere un anno di grazia, a poche ore di distanza dalle solenni celebrazioni romane con le quali Giovanni Paolo II sigilla la Porta santa, varcata da milioni di pellegrini. E anche da non pochi di noi casalesi.
La Porta. Ecco un simbolo che il Giubileo ha esaltato.
E ora, da questa sera, siamo… oltre la Porta.
Molti di noi, infatti, avendone varcato la soglia in umiltà e fervore hanno fatto tesoro dell’indulgenza.
Ma tutti, idealmente, percorrendo questo anno giubilare, abbiamo varcato quella soglia, immettendoci nel nuovo millennio, animati da speranza.
E ora siamo… oltre la soglia del millennio, varcata la Porta del grande Giubileo.
OLTRE LA PORTA. Ho dato questo titolo alla Lettera Pastorale: me l’hanno suggerito i giovani che mi hanno accompagnato, sotto il sole cocente di Roma, nel duro e travolgente pellegrinaggio oltre la Porta di San Pietro, prima, e di Tor Vergata, poi.
Me l’ha suggerito quella commovente immagine che ho posto in copertina, facendo, per una volta, eccezione all’uso di immagini della nostra tradizione locale.
L’immagine è storica: il vecchio, stanco, Papa che abbandona il bastone per appoggiarsi a cinque giovani dei cinque continenti e attraversa, lentamente, con loro, la Grande Porta che a Tor Vergata introduce nell’immensa spianata del Giubileo dei Giovani.
Davvero l’anziano Pontefice ci trascina, con il suo giovanile fervore e il suo intrepido coraggio, “oltre la Porta…”.
L’icona ci rimanda alla forte parola del Vangelo di Giovanni.
“Io sono la Porta, se uno entra attraverso me, sarà salvo: entrerà, uscirà e troverà pascolo” (GV, 10-9).
Questa Porta infatti, è porta di libertà: Cristo non rinserra, ma libera.
Si entra, si esce, si trova pascolo.
Non è a senso unico questa porta che è Cristo: Egli ci ha infatti liberati con la sua Pasqua, offrendoci “ la mite apertura” del suo Costato squarciato, come porta per “entrare, uscire e trovare pascolo”.
Questa è la libertà che Cristo ci ha regalato (“quella libertà, direbbe l’apostolo Paolo, con cui Cristo ci ha liberati”): essa è bene espressa dalla “permeabilità” di una Porta che permette di entrare liberamente e di liberamente uscire per “ trovare pascolo”.
Voglio intrattenervi su questi tre verbi: essi esprimono tre azioni significative che hanno sullo sfondo, l’immagine di una porta da oltrepassare.
Andare oltre per entrare, andare oltre per uscire, andare oltre per trovare pascolo.

PRIMO: TROVARE PASCOLO
Ma quale pascolo?
L’immagine è legata al gregge e all’ovile, al Pastore e alla Porta.
- “ Io sono la Porta delle pecore” (GV. 10, 7).
- “ Io sono il Buon Pastore” (GV. 10,11).
Nel giro di alcune poche frasi le due immagini si sovrappongono così che Gesù le attribuisce ambedue a sé - Porta e Pastore - legando così “l’entrare e l’uscire” attraverso la Porta, al “trovare pascolo” grazie al Pastore.
Il pascolo, dunque, è quella vita che il Pastore dona al suo gregge.
Fuor di metafora, è quella salvezza che Egli offre a tutta l’umanità, in cerca di pascoli verdi per saziare una fame e una sete che solo in Lui trovano conforto e compimento.
“Sono venuto – dirà - perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (GV10,10). Questi sono i pascoli:, i pascoli verdi dove il Signore fa riposare il suo gregge, cioé il suo popolo.
La Pastorale
Alla luce di questo messaggio, trova pieno significato quell’azione della Chiesa che viene chiamata la “Pastorale”.
Il Pastore - l’unico, supremo Pastore, Gesù - ha affidato nei secoli la sua missione alla comunità dei suoi discepoli, il cui compito “pastorale” è quello di accompagnare l’umanità ai pascoli della salvezza.
Così la Pastorale non è soltanto quell’affannarsi di preti e di laici per aprire sentieri a bambini e adulti, a famiglie e anziani verso una convergente meta: fare tutti insieme una comunità.
La Pastorale è il compito di tutti, preti e laici, perché a tutti possa giungere la cura del Pastore e a tutti siano aperti i pascoli della verità e della vita, in forza e per la grazia di Lui.
Traggo una prima conseguenza: dobbiamo tutti rivalutare la nostra “chiamata” alla Pastorale: è parte integrante della nostra “vocazione” battesimale.
Essa non è il compito esclusivo né del vostro parroco, né del vostro Vescovo.
La Pastorale è missione per tutti nella Chiesa e tutti ne possiamo e dobbiamo diventare protagonisti.
Penso a voi genitori: avete chiesto il Battesimo per i vostri figli, li avete accompagnati alla Cresima e all’Eucaristia (questo cammino lo chiamiamo “iniziazione cristiana”): questa è la vostra missione pastorale. Aiutare i figli, anzitutto con l’esempio, a “trovare pascolo” cioè a sperimentare quella vita che Gesù Buon Pastore ha riservato loro, non tanto per la loro infanzia, quanto per gli impegnativi anni della giovinezza e della vita adulta.
Penso a voi catechisti, modelli di testimonianza cristiana, impegnati ad affiancare l’opera della famiglia nel difficile accompagnamento di ragazzi e adolescenti ai “verdi pascoli” della vita cristiana.
E penso a tutti gli educatori cristiani impegnati in una “Pastorale” di crescita delle nuove generazioni, così come mi viene da pensare a tutti quegli “Operatori pastorali” che dal Concilio in poi sono stati sollecitati a formarsi una coscienza e una preparazione che li renda capaci di una missionarietà a tutto campo.
C’è posto per tutti
C’è posto per tutti nella Pastorale. Lo dice bene il Papa nella “Christifideles Laici”
“Non c’è posto per l’ozio, tanto è il lavoro che attende tutti nella vigna del Signore”. (Cfr. Ch.L, n.3).
Ve lo vorrei ripetere appassionatamente anch’io. Soprattutto a voi laici vorrei giungesse come frutto di questo Giubileo un caldo appello all’assunzione delle vostre responsabilità pastorali, nelle quali impegnarvi con forte spirito missionario.
La missione della Chiesa, che è la missione affidatale da Gesù Pastore, è compito di tutti.
Affrontiamo il nuovo decennio nel segno di un rinnovato “ fervore missionario” da vivere tutti insieme, preti e religiosi e laici, con il coraggio che i tempi richiedono.
Diceva Paolo VI in uno dei suoi più alti documenti (la “Evangelii nuntiandi”): “La presentazione del messaggio evangelico non è per la chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per il mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati” ( E.N.n.5).
E se non è facoltativo per la Chiesa essere missionaria, non lo è per nessuno di noi. Prete o laico che sia.
Abbiamo davanti un decennio per ribadire questa “cultura missionaria”. Saremo infatti sollecitati ad evangelizzare Cristo, speranza per l’uomo, con una costante azione di missionarietà in una società sempre più scristianizzata e secolarizzata.
Un traguardo così impegnativo esige una comunità cristiana tutta seriamente rinnovata nella fede e nell’amore: in una parola una comunità segnata da una profonda coerenza tra fede e vita che è arduo ma vero chiamare “ santità”.
Un impegno missionario
È il primo frutto del Giubileo: oltre la Porta ci aspetta l’urgenza di un impegno missionario a tutto campo: nella cultura, nell’educazione, nell’atteggiamento ecumenico e nella passione per l’annuncio cristiano su tutti i fronti.
L’appello ad una fervorosa missionarietà è soprattutto rivolto a voi laici, a voi che siete posti sui confini della modernità e della storia.
A voi dedico questa bella e struggente pagina di Paolo VI, grande e geniale poeta del laicato cattolico.
“I Laici che la loro vocazione specifica pone in mezzo al mondo e alla guida dei più svariati compiti temporali, devono esercitare con ciò stesso una forma singolare di evangelizzazione. Il loro compito primario e immediato non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale - che è il ruolo specifico dei Pastori - ma è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle realtà del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia: così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dovere sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere, né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edificazione del Regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo . (E.N. n.70)
Missionarietà e pastoralità: due parole che si compenetrano e rappresentano così un cammino obbligato per il prossimo decennio pastorale.
C’è un campo aperto: aperto a tutti e a ciascuno, oltre questa Porta del Giubileo.
È il campo di una azione pastorale fervorosa e missionaria.
Nessuno deve mancare all’appello.
L’urgenza di una ripresa pastorale, ispirata alla missionarietà, è sotto gli occhi di tutti.
A nulla ci sarà giovato varcare la Porta Giubilare, se non intravediamo questo “oltre” che ci attende, questo “di più” che urge.
Un supplemento di coraggio, di impegno, di entusiasmo: un supplemento di generoso e robusto fervore di missionarietà.
È quanto il Papa ha chiesto ai giovani di Tor Vergata, citando Santa Caterina.
“Se sarete quello che dovete essere, porterete il fuoco in tutto il mondo”.
È ora, per tutti, di essere ciò che dobbiamo essere:semplicemente, cristiani.

SECONDO: ENTRARE
E per esserlo veramente ecco il secondo verbo della Porta: entrare.
Una Porta è fatta per entrare.
Abbiamo varcato la soglia della Porta Santa: e “oltre” che cosa c’è?
Entrando…. che cosa e chi incontriamo?
Voglio proporvi un triplice incontro “oltre la porta”.
La Chiesa
Il primo incontro è la Chiesa.
Anche visivamente è così: varcata la soglia vi siete trovati nella grande chiesa. A San Pietro, ad esempio.
Un vasto spazio popolato di Santi e di peccatori, di vivi e di defunti, di strutture e di persone: un immenso cantiere di opere, di canti, di preghiere, di carità, di vita.
Sì, avete incontrato, abbiamo incontrato, la Chiesa “oltre la Porta”.
Ci siamo imbattuti in una realtà che forse molti di noi avevano perso di vista: ripenso ai milioni di giovani di Tor Vergata e della Giornata Mondiale della Gioventù (G.M.G.).
Molti di loro l’hanno detto: con meraviglia e con stupore abbiamo ritrovato la Chiesa.
Non tanto il tempio, quanto quell’edificio di pietre vive, fondato sulla pietra viva che è Cristo.
Riscoprire la Chiesa, accorgersi di appartenervi, entusiasmarsi nel condividerne i segni, le parole, i riti, le speranze: ecco una prima meta che ci viene offerta “oltre la Porta” .
Vi ho spesso parlato dell’appartenenza: ne ho fatto oggetto di catechesi in tutta la mia prima visita pastorale. Mi sono appassionato attorno a questo tema.
E voi?
Quale senso di appartenenza alla chiesa (parrocchia, diocesi, chiesa universale) è diffusa tra noi? Avete mai provato a misurane la portata?
Oggi è diffuso un sottile senso di “estraneità” alla Chiesa: talvolta esso è addirittura ostentato.
C’è gente che si chiama fuori.
Tra i giovani soprattutto e tra gli intellettuali.
Altri esprimono una “appartenenza con riserva”, distinguendo e distinguendosi da una Chiesa che dimostrano di non condividere con cordialità.
E poi, via via, appartenenze labili, formali, provvisorie,altalenanti.
Dove troviamo una appartenenza piena, cordiale, fervorosa?
Si è forse smarrita nei meandri di una società individualistica, e più ancora.
Questa appartenenza ecclesiale va ricostruita: pazientemente, sapientemente.
È la prima meta “oltre la Porta”.
Ed è una meta che subito ci sospinge “oltre”: a Cristo.

Il Cristo
Infatti abbiamo varcato la Porta per incontrare Lui. Ve l’ho spesse volte indicato nella nostra Cattedrale: appena varcata la soglia, nel fulgore delle cinque navate neoromaniche, ci viene incontro, l’antico gioiello di arte romanica: il grande Crocifisso regale.
Non si può non imbattervisi.
È il segno di una centralità assoluta: la chiesa è ospitale, perché c’è Lui.
L’appartenenza è a Lui, il Risorto.
La croce è solenne, come un trono tempestato di gemme. Di gemme è la corona aurea (che ha sostituito la corona di spine).
Il grande Cristo romanico della nostra Cattedrale ha gli occhi sbarrati e ti inquieta con quello sguardo: egli è il Vivente, anche se porta ancora nella carne i segni della Passione.
È l’Agnello immolato, ritto in piedi, di cui parla l’Apocalisse.
È Lui che incontriamo “oltre la Porta”; è fissando lo sguardo su di Lui che si radica la nostra fede e si rinnova la nostra speranza. “ Con lo sguardo fisso….”
La Trinità
Ma ancora una volta il cammino va “oltre”: Cristo ci apre la via alla Trinità.
È per rimpatriarci nell’amore infinito della Trinità che Egli mostra ancora il suo fianco squarciato, porta aperta e mite apertura perché chiunque voglia incontrare il Padre nello Spirito passi di lì: per Cristo, con Cristo e in Cristo.
Ciò che noi incontriamo nella Chiesa, dopo la Porta del Giubileo, è una comunità accogliente, è una salvezza offerta, è una patria sognata.
Dovremo trarre alcune conseguenze pastorali da questo “ entrare” oltre la Porta del Giubileo.
Sono conseguenze pastorali che qui ho soltanto il tempo e il modo di accennare, ma sono mete semplici e fondamentali per il nostro cammino.
Educare ed educarci alla Chiesa. Come famiglia a cui si appartiene, come comunità di cui si fa parte: è questo il primo progetto pastorale che il “ dopo Giubileo” ci chiede.
Una Chiesa fraterna
Avremmo lavorato invano a portare gente “oltre la Porta” se, oltre la porta, questa gente non avesse trovato una chiesa-comunione, una chiesa fraterna, una chiesa amica, in cui trovarsi bene (“Trovare pascolo”).
C’è molto da fare per far crescere comunità ecclesiali accoglienti come famiglie.
Una vera pastorale è ecclesiale: ha, cioè, per soggetto la Chiesa tutta.
Bisogna lavorare per la Chiesa e nella Chiesa: è lì che, varcando la soglia, ci si imbatte. Se l’impatto con la chiesa è infelice, spesso si spezza anche il cammino religioso della gente.
Se la chiesa fa da schermo e non da porta permeabile e atrio accogliente, troppa gente si smarrisce nel cammino e non giunge né a Cristo, né a Dio.
Abbiamo una seria e grave responsabilità: essere chiesa che accoglie, comunità aperta e cordiale, gente credibile, nelle sue parole e nei suoi gesti.
Penso d’istinto al nostro grande “Nartece” che tra pochi mesi potremo tornare ad ammirare nel suo fulgore artistico vicinissimo agli splendori primitivi del XII secolo.
Nella sua incantevole, semplice bellezza, nella sua armonia di linee e suggestione di sculture, il Nartece è il simbolo dell’accoglienza a braccia aperte: esso sta appena oltre la Porta ed è la prima icona di chiesa che appare a chi vi si affaccia.
La sua ampiezza lascia intravedere che nella chiesa - nella nostra chiesa - c’è posto per tutti.
La sua bellezza fa capire che nella chiesa ognuno si troverà come a casa.
La sua storia, impressa nell’architettura e nell’arte, rivela chiaramente che la nostra chiesa viene da lontano e lontano intende andare.
E noi saremo capaci di essere una chiesa così? Una chiesa coraggiosa, accogliente e missionaria?
E chi ci vede e ci giudica, prima ancora di entrare, troverà in noi quello spazio permeabile di libertà e di fiducia che gli consenta di “entrare, uscire e trovare pascolo?”
Il Cristo come strada
A questo primo impegno, però, se ne aggiunge un altro: portare a Cristo.
Guai se la chiesa si pone come fine e punto d’arrivo! La chiesa è strada a Cristo, è a Lui che deve indirizzare e condurre.
Questo è un impegno pastorale molto chiaro. Ma non sempre attuato coerentemente. Ci domanderemo, come frutto del Giubileo, quanto i nostri itinerari catechistici (per l’iniziazione cristiana, ma non solo) portino effettivamente a Cristo; quanto le nostre liturgie facciano incontrare Lui e Lui solo; quanto le nostre attività pastorali di servizio, di carità, di impegno sociale abbiano come fine e meta Lui, il Signore!
Una revisione, in questo senso, della nostra azione pastorale è certamente urgente e necessaria.
Ce ne offre certo l’occasione l’orizzonte pastorale del prossimo decennio che si sta preparando attorno al tema: “Cristo, speranza per l’uomo”.
Allora, nello sforzo di annunciare Cristo, tenendo fisso lo sguardo su di Lui, Verbo Incarnato, potremo continuare a vivere la grazia giubilare.
La Grazia come meta
E, attraverso Cristo, potremo anche fare l’ulteriore passo, quello decisivo: accompagnare l’uomo di oggi all’incontro con l’Infinito amore della Trinità.
C’è molta distrazione, anche tra la gente di Chiesa, a proposito della Trinità.
Ci si fa il segno di Croce, spesso come un talismano o un portafortuna, senza neppure pronunciare il nome delle tre auguste Persone.
Perché non ricominciare dal “segno di Croce” ben fatto e ben meditato?
Apriamo e chiudiamo ogni nostra assemblea liturgica nel nome della Trinità: ma spesso lo facciamo per pura abitudine, senza accorgerci della grandezza di un mistero in cui siamo immersi, dal giorno stesso del nostro Battesimo.
E a partire dal segno di Croce che noi compiamo, nel nome delle tre Divine persone, si delinea l’itinerario che ci porta a capire che questo Mistero non è estraneo al nostro essere: anzi ci penetra e ci avvolge.
Con grande sapienza il Papa, nella T.M.A., ci ha voluto preparare al Giubileo con quella lunga catechesi: su Cristo, lo Spirito e il Padre fino a concentrare l’attenzione dell’anno giubilare sul Mistero Trinitario.
Ora che abbiamo varcato la soglia, è ancora a questo Mistero che volgiamo gli sguardi e indirizziamo il cammino.
Traete voi le conseguenze pastorali. Ce ne sono tante e per ogni creatività ed esperienza.
Proponendo alcune linee per l’impegno pastorale nel prossimo decennio, la bozza di lavoro affidata ai vescovi offre uno squarcio di programma pastorale di cui mi servo per concludere questo capitolo.
Dobbiamo anzitutto parlare di Cristo. La chiesa non può affrontare seriamente il compito dell’evangelizzazione se non ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesù Cristo, parola di Dio fatta Carne. Solo la contemplazione costante del suo volto le permette di comprendere chi è il Dio vivo e vero, di capire come ci è stato da lui rivelato e come anche oggi possa essere comunicato. Questa contemplazione avrà grandi ricadute sulla figura stessa della chiesa e sull’intero lavoro educativo e pastorale a cui essa si dedica. Come ha detto il Concilio, la Chiesa “mira a questo solo: a continuare, sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere serviti.”

TERZO: USCIRE
Non è la prima cosa a cui si pensa, ma in verità la Porta serve anche ad uscire.
“Entrare, uscire e trovare pascolo” sono tre verbi riferibili alla Porta che è Cristo.
Cristo è dunque anche la Porta che mette in comunicazione con l’esterno: egli infatti manda i suoi apostoli nel mondo: “Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Mt. 10,16).
E meno drammaticamente all’inizio degli Atti “Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra”. ( Atti. 1,8).
Entriamo, dunque, per uscire. Ed è questo il bello della Porta: che ha quella totale “permeabilità” da rispettare la libertà di tutti e ogni libera coscienza che “entra, esce e trova pascolo”.
Ma che cosa troviamo uscendo, oltre la Porta? Qui si completa e si arricchisce questa nostra trilogia di verbi: l’uscire, infatti, non è meno importante degli altri due.
Uscendo infatti di chiesa (e restiamo pure nella metafora del tempio come simbolo ecclesiale ed esistenziale) troviamo il sagrato, la città, la gente.
Quasi tre cerchi concentrici che ci raffigurano il dialogo, la politica e la carità.
Ma andiamo ancora una volta per ordine.
Il dialogo sul sagrato
Il sagrato è una realtà che tende scomparire.
Troppo spesso è diventato un parcheggio per automobili ingombranti; spesso è tagliato da strade di grande comunicazione dove sfrecciano i bolidi della modernità; qualche volta è ridotto ad un bivacco di sfaccendati e bontemponi (uso una parola che già amavano i profeti dell’antico testamento).
Quasi mai è quello spazio fra sacro e profano, tra chiesa e mondo che forse voleva essere all’origine, quando con squisito gusto estetico, veniva preservato con graziosi recinti di cappelle della Via Crucis o con spazi verdi di struggente poesia.
Ma il significato del sagrato, sia pure con tutti gli insulti della moderna tecnologia avanzante, rimane, se non altro, come una “memoria”.
Per noi casalesi, ad di là di alcuni suggestivi sagrati di collina, resta il grande significato del “Nartece” della Cattedrale, che ho già citato e che nel suo splendore architettonico, artistico e storico può ben fare da simbolo per l’allegoria di un sagrato che fa pensare al dialogo tra la chiesa (con la sua sacralità) e il mondo (con la sua profanità).
In verità i due termini sono eccessivamente antitetici: infatti dopo Cristo più nulla è soltanto sacro e più nulla è esclusivamente profano, ma in Lui - che ha amato definirsi “la Porta delle pecore”- tutto si ricompone in grande armonia.
Quello che dice, appunto, la “Gaudium et spes” fin dal suo solenne e confortante “incipit” “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre, ed hanno ricevuto il messaggio di salvezza da riproporre a tutti.
Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. ( G. Sp, n.1)
È proprio questo il fondamento del dialogo che la chiesa vuol stabilire con il mondo contemporaneo, lasciando da parte il “muro contro muro” e le contrapposizioni ideologiche, per aprire un vicendevole credito di comunicazione e di comprensione.
Mi piace ancora rifarmi alla bozza del documento che ci guiderà, con tutte le chiese che sono in Italia, nel lavoro pastorale del prossimo decennio.
Proponendosi una missionarietà appassionata per “seminare speranza” nel mondo di oggi, la bozza afferma circa l’animus con cui affrontare il dialogo con la civiltà contemporanea. Potremmo anzitutto suggerire ai cristiani di lasciarsi condurre dalla certezza che il primo compito della chiesa è quello di comunicare la fede, ritenendo che tutti gli uomini sono destinatari del Vangelo; e poi di “dare credito a Dio” e avere la sicurezza della presenza operante dello Spirito Santo nel cammino missionario della Chiesa; terzo di ritenere reale l’attualità del Vangelo. L’animus giusto è anche quello che, come ha ricordato il Prof. Garelli a Palermo, “ci vede aperti, capaci di avvertire le mille connessioni tra l’ambiente ecclesiale nel quale viviamo e tanti altri mondi che ci circondano e che, di fatto, ogni giorno dobbiamo attraversare. Il modo giusto è quello di navigare in mare aperto. Certo non è facile, eppure bisogna farlo. Le sfide sono grandi, ma sono grandi anche le attese e le opportunità. Dobbiamo prenderne coscienza non per fuggire, ma per affrontare la realtà.
Affrontare la realtà vuol dire avere il coraggio di un dialogo franco e fraterno, come Paolo VI suggeriva nella immortale sua prima enciclica “Ecclesiam suam”.
Questo impegno che ci attende nel prossimo decennio (parlare di Cristo come speranza per l’uomo) risponde bene all’urgenza dialogica che il sagrato raffigura: infatti è la prima realtà che sta “oltre la Porta” quando si esce di chiesa.
La politica nella città
Ma oltre il Sagrato, ecco venire incontro tutta la città: la città degli uomini e delle donne, delle case e delle famiglie, la città di tutti i problemi della speranza umana.
Spesso essa è una città secolarizzata che ha smarrito il suo centro: la Cattedrale è più spesso un museo da visitare che un centro di convergenza della vita cittadina.
La città sta camminando per le sue strade e secondo i suoi pensieri: tocca a noi cristiani attraversarla con amore, come l’antico profeta Giona attraversava, in un cammino di tre giorni, la secolare città di Ninive.
Quell’episodio biblico è suggestivo e impegnativo.
Giona che dapprima cerca di sfuggire al suo compito di profeta è troppo simile alle nostre paure, alle nostre deficienze, ai nostri dinieghi, di fronte alla città secolarizzata. Spesso preferiamo la fuga nelle nostre calde sacrestie. Spesso ci impuntiamo sulla porta delle nostre comunità per evitare il duro confronto con la modernità.
Ma la città va affrontata: nel bene e nel male. “Maledetta, benedetta città”, è stato detto e scritto.
Sì, in queste strade, in queste piazze, in questi stadi, in queste scuole, in questi quartieri si gioca la credibilità di una chiesa missionaria che deve seminare speranza.
Giona ci insegna.
E il nostro tempo ci costringe.
È la politica il grande areopago in cui scendere oggi,come cristiani.
Perché è la politica che costruisce o distrugge la città.
Chi vuole o deve essere seminatore di speranza, deve affrontare la politica come spazio di testimonianza nella città.
Lo diceva Paolo VI, che ancora una volta sento di dover citare quando impegnava i laici al “mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia”. (Ev. N. n.70, già integralmente citato nella prima parte).
Uscire “oltre la Porta” vorrà dire allora che il Giubileo non è concluso, fino a quando le nostre comunità cristiane si autosequestreranno dall’impegno sociale e politico per un malinteso senso della propria vocazione alle sacrestie.
Uscire, dunque, in mare aperto, con il coraggio della missione che sa attraversare la modernità, sapendo di portare un messaggio che serve a tutti; perché è una proposta di libertà e di speranza che già in passato ha costruito una civiltà di cui siamo eredi e che però ha l’ambizione di conoscere anche i sentieri di un futuro più umano.
L’amore per la gente
E di strada in strada, di piazza in piazza, di casa in casa, ecco la gente.
È questo il culmine del percorso cristiano che ci fa uscire dal tempio, attraverso il sagrato, nella città degli uomini.
Uscendo, troveremo la gente.
La riscopriremo, forse, diversa da come l’abbiamo immaginata e pensata dentro gli schemi, sempre un po’ ideologici, in cui spesso l’abbiamo imprigionata.
La gente siamo noi: sono i nostri figli e nipoti. Sono le famiglie di cui facciamo parte, i vicini di casa e di quartiere. La gente sono i malati, gli anziani, gli ultimi a cui le rilevazioni sociologiche raramente arrivano. La gente è anche quel popolo che la recente alluvione del Po ha scompaginato, non solo nelle sue case, uffici, negozi, aziende e fabbriche, ma soprattutto nella sua anima ferita e come violata dalla paura e dai fremiti di una ira che sale dal profondo. Una gente, la nostra, a cui l’alluvione ha rubato serenità e tranquillità di convivenza sociale, togliendo speranza e coraggio nel guardare al futuro.
Questa gente ci aspetta. Aspetta noi cristiani portatori di speranza, visto che molte speranze utopiche e materialistiche sono cadute come gli aquiloni nell’immaginario collettivo.
C’è gente che attende speranza.
Noi l’abbiamo.
Cristo è la nostra speranza come canta l’antico inno liturgico della nostra Pasqua.
“Surrexit Christus spes mea”.
“Cristo, mia speranza è risorto”.
Ma non vi accorgete che questo uscire dal tempio per incontrare la gente, quella di tutti i giorni, è una proposta pastorale entusiasmante? Capace da sola di risvegliare una chiesa, troppo anchilosata e ripiegata su se stessa?
Accogliamolo questo decennio pastorale tutto “Missionarietà e speranza”, come uno squillo di tromba che svegli tutti noi da un oscuro sopore di stanchezza e di ripiegamento.
Sì, la gente ci aspetta. Andiamo con fiducia e con amore.
Una intera generazione di giovani, che sembrava allo sbando, è stata risvegliata da un vecchio Papa che li ha chiamati “mia gioia e mia corona”.
Una schiera di famiglie giovani stanno incrinando i loro rapporti, perché la paura del futuro le rende infeconde e ripiegate su se stesse.
Folle di poveri nel mondo e sull’uscio delle nostre case, reclamano più giustizia e più solidarietà.
Anziani e malati non si accontentano più di rifugi dorati per le loro solitudini e chiedono, supplicando, un po’ più d’amore e di considerazione.
Il mondo, dilaniato da odi e da violenze, guerre e razzismi desolanti, chiede a gran voce la pace.
Noi, discepoli di Cristo, siamo stati mandati da Lui, da quel giorno – l’oggi della salvezza – a “fasciare le piaghe dei cuori spezzati” e a proclamare un “anno di grazia del Signore”.
Che cosa aspettiamo ad uscire, oltre la Porta giubilare, con l’animo fervoroso dei missionari?
Ci attendono dieci anni tra missionarietà e speranza.
Nessuno si fermi sulla soglia.
Uscire è urgente, per seminare speranza.

La Domenica, festa della speranza
Le conseguenze pastorali sono tutte facilmente immaginabili: l’atteggiamento dialogico suggerito dal sagrato, l’impegno cristiano nella vita sociale e politica esigito dalla città, l’amore appassionato per la gente, non hanno bisogno di molte esemplificazioni per tradursi in prassi pastorale.
Ma voglio concludere questa lettera con un simbolo che tutto racchiude: una vera icona, carica di forza comunicativa.
Ve ne avevo già parlato l’anno scorso: riproponiamo con fiducia la forza espressiva della Domenica, festa della speranza.
Rilanciando la centralità pastorale della domenica (Giorno del Signore, ma anche giorno del suo popolo, giorno della famiglia e della gente) noi possiamo focalizzare su di essa i tre verbi della Porta: “entrare, uscire e trovare pascolo”.
Provate a pensarci tra di voi, discutetene nei consigli pastorali, ricercate tra operatori, animatori e sacerdoti, approfondite il tema in tutte le aggregazioni laicali: troveremo tra tutti qualche percorso pastorale transitabile.
So bene che dobbiamo andare in salita e remare controcorrente.
Ormai la domenica è diventata per molti disimpegno, distrazione, scelta di conformismi e consumismi esasperati.
Ma noi non ci rassegniamo.
Vogliamo far perno sulla domenica per “entrare” nelle nostre chiese, per ritrovare in Cristo l’abbraccio con l’amore di Dio; per tornare ad “uscire” dalle nostre chiese con un appassionato amore per l’uomo.
Così troveremo pascolo: così faremo ritrovare pascolo, per dirla con il Vangelo del Pastore.
Sarà Lui, l’unico eterno Pastore a guidarci, popolo esultante verso i “pascoli verdi della domenica senza tramonto”.
Nella festa di ogni domenica, insieme con la nostra gente, ritroveremo la gioia di un banchetto che è imbandito per tutti: il banchetto della speranza.
In questa speranza, vi saluto tutti ricordandovi che c’è una Madre di tutti, Maria, che noi chiamiamo filialmente “spes nostra”, nostra speranza.
Sì, “spes nostra, salve!”

+ Germano, Vescovo

Casale Monferrato, 4 gennaio 2001
Festa della Cattedrale di Sant’Evasio e giornata conclusiva del Giubileo


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