Questa nostra Chiesa in mezzo alla Città (Sant'Evasio 2004)

Questa solenne celebrazione della Festa del Santo Patrono apre ufficialmente il Triennio di preparazione al grande avvenimento del Nono centenario del Duomo.
Consacrato dal Papa Pasquale II il 4 gennaio 1107, il Duomo dedicato a Sant’Evasio, divenuto successivamente Cattedrale della Diocesi, è il monumento in cui si riassume, per così dire, la storia secolare della città.
Una storia di nove secoli, dentro la quale si sono succeduti avvenimenti religiosi (ne abbiamo ricordato il più significativo nell’Anno Evasiano concluso lo scorso anno), ma anche avvenimenti civili, sociali e culturali che costituiscono l’humus della civiltà casalese e del territorio monferrino.
L’importanza dell’avvenimento nove volte centenario, che intendiamo preparare con un triennio di impegno pastorale, mi ha suggerito il titolo della Lettera Pastorale che oggi consegno idealmente alla Diocesi.
Ho scelto questo titolo che è anche il titolo di questa festa pastorale: “La nostra Chiesa in mezzo alla città”.
L’icona è sotto gli occhi di tutti: questo splendido antico Duomo, e soprattutto il suo straordinario Nartece Romanico , è evidentemente il centro e il cuore di questa città.
Essa vi si è costruita attorno, pietra dopo pietra, case, vie, piazze e struttura urbanistica.
Ma tutto ciò è un simbolo: la città dell’uomo (le sue istituzioni, le sue famiglie, la sua palpitante esistenza) si stringe attorno ad un centro che è la Chiesa “dimora di Do con gli uomini”, per rifarci alla bella pagina dell’Apocalisse che abbiamo appena ascoltato.
Indubbiamente il linguaggio figurato e i simboli di quel testo biblico appartengono ad un’altra civiltà e cultura. Ma, come tutta la Parola di Dio, offre spunti di perenne attualità.
L’Urna del Santo Patrono, attorno alla quale siamo riuniti, dentro questo splendido contenitore di inossidabile forza e di struggente bellezza, può ben essere interpretata come un altro, diverso ma convergente, segno della “dimora di Dio” in mezzo alla nostra città.
Risuona anche in questo antico tempio la voce che - secondo l’apocalisse- esce dal Trono:
“Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli dimorerà tra di loro
ed essi saranno il suo popolo
ed egli sarà il "Dio-con-loro.
E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno”.(Apoc 21 3/b- 4a).
È una promessa.
Il segno della “Dimora” è questo: una profezia di speranza per la città dell’uomo abita dall’amore di Dio.
C’è un Salmo che dice testualmente:
“Se il Signore non costruisce la città, invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città invano veglia il custode” (Salmo 127).
Invano dunque vi faticano coloro che costruiscono, senza questo fondamento e prescindendo da questo centro e questo cuore.
Ma di quale conio deve essere questa presenza così incisiva nella storia e nella vita della città dell’uomo?
Solo simbolicamente essa è indicata dalle pietre ben levigate, ornate e ordinate, del nostro Duomo.
In verità, andando oltre il simbolo, il fondamento morale della nostra città è la “nostra Chiesa”.Cioè quell’edificio spirituale che nel corso dei secoli ha incarnato il Vangelo, in una comunità che ha reso presente Cristo Salvatore nella storia di questa città.
E ora quell’edificio spirituale siamo noi: io vostro vescovo, voi cari sacerdoti e diaconi che così numerosi raffigurate qui tutto il nostro presbiterio diocesano e voi tutti, religiosi e laici di questa santa Chiesa Evasiana.
Siamo noi la chiesa in mezzo alla città dell’uomo: chiesa che comunicando il Vangelo in un mondo che cambia, continua ad essere segno di speranza per il futuro della città.
“Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo” (Mt 5,13), ci è stato detto e solennemente ribadito questa sera.
E l’immagine della “Città sul monte”, che Gesù utilizza per illuminare il ruolo dei suoi discepoli nella storia, risuona quanto mai suggestiva in questa nostra solenne assemblea.
Sì, vogliamo e dobbiamo essere sale, luce e città sul monte: essere, cioè, in mezzo alla città degli uomini un segno levato in alto, come questo stupendo Cristo glorioso che da secoli domina la nostra Cattedrale: icona di Pasqua, icona di speranza.
Segno innalzato in mezzo alla città, profezia per il futuro, così come è stato forte e suggestiva testimonianza nei lunghi secoli di storia passata.
Ma, per uscire dalla retorica, dobbiamo interrogarci sull’attuale responsabilità che ci riguarda come Chiesa di fronte alla città.
La città guarda alla Chiesa, spesso con occhi di speranza, ma talora anche con ansiosi interrogativi e qualche non larvata perplessità.
Questa città, ma con essa tutto il territorio, vive giorni di preoccupazione su molti fronti e ore di ansiosa attesa su altri ancora.
Incombe ognora la sottile paura di un’aria resa irrespirabile, anzi pericolosa per l’inquinamento pluridecennale dell’Eternit e problematizzata dalle ricorrenti sofferenze fisiche e morali che la nobile lotta contro il tumore non riesce a lenire.
È come un simbolo, questo, dei molti altri mali di cui la città dell’uomo oggi soffre: l’inquinamento delle coscienze e l’ obnubilamento delle scelte morali.
Ogni settimana sono uccisi esseri umani nel grembo delle loro infelici madri e il veleno di una cultura permissiva e omicida penetra nei cuori e nella mentalità dominante: al flagello dell’aborto si sta aggiungendo ora quello della procreazione, cosidetta assistita, ma che per la verità, è innaturale e drammaticamente occisiva.
E se dovessimo indugiare nel pessimismo, avremmo da dire altre cose. Come, per fare un esempio, quel certo risorgente ribellismo giovanile, dietro al quale sono bene evidenti i fili tirati da certi burattinai.
E ancora: le difficoltà sottilmente diffuse nel mondo del lavoro e dell’imprenditoria che ogni tanto affiorano provocando allarmismi e tensioni, anche nei nostri tranquilli territori.
E la povertà crescente di famiglie e persone che non riescono a giungere alla fine del mese in condizioni serene e, spesso, non riescono a connettere pranzo e cena o ad affrontare contemporaneamente le spese per il caro-affitti e il peso delle utenze indispensabili.
Per non dire delle condizioni spirituali delle famiglie che facilmente si sfasciano, dei minori che sono lasciati allo sbando, degli anziani e malati che vedono scarse sicurezze davanti al loro futuro.
Non per indulgere al catastrofismo dico queste cose, ma per rafforzare il nostro impegno di Chiesa a tergere “ogni lacrima” (Apoc 21,4) e perché più non ci sia “morte né lutto, né lamento, né affanno”. (Apoc 21,4).
“Una Chiesa in mezzo alla città” significa tutto questo: cioè una presenza di speranza, una responsabile iniezione di novità: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” continua l’Apocalisse (Apoc 21,5).
La nostra città, è carica di positive opportunità: non le mancano risorse.
Le sue istituzioni sono fiorenti, le sue strutture, civili ed economiche, sono solide, le sue potenzialità sono rilevanti.
Ma questa città, pur nel suo sostanziale equilibrato benessere (anzi proprio per questo), ha urgente bisogno di un’anima spirituale che ne sorregga le energie e ne incanali le forze.
La presenza della Chiesa ( la “Dimora di Dio”) può essere questa energia spirituale purché noi- “la nostra Chiesa”- sappiamo starle vicino, anzi “in mezzo”.
Ma non solo nella simbologia del Duomo in mezzo alla città, ma piuttosto nella realtà di una Chiesa che sta in mezzo alla gente e ne interpreta le gioie e le speranze.
La Lettera Pastorale che vi sto presentando termina con una breve pagina del Card Martini, tratta da quel testo che egli ci volle indirizzare in occasione dell’inaugurazione dell’Atrio Ritrovato.
Leggendo la simbologia del Nartece il Presule scriveva:
Il Nartece esprime un momento della vita ecclesiale, cioè il dialogo continuo della Chiesa con la società. È un dialogo nel quale la Chiesa, come dice il Concilio Vaticano II fa sue le gioie e le speranze, le sofferenze e le tristezze della gente. Si pone in ascolto, recepisce le istanze, si sforza di comprenderle.
Il Nartece significa anche le risposte di fede e gli orizzonti di speranza che la Chiesa elabora per la società, immettendo in essa quei valori spirituali e morali di cui ha bisogno per orientarsi nel vivere quotidiano.
Il testo è limpido e illuminante su ambedue i fronti: quello della città e quello della Chiesa.
Come deve essere la nostra Chiesa perché sia “sale, luce e città sul monte”., è ben detto anche nella seconda Lettura di questa liturgia.
Paolo, scrivendo ai Romani, traccia un identikit di comunità cristiana, valido anche per noi.
Dopo aver raccomandato di non conformarsi alla “mentalità di questo secolo” ( Rom 12,2), l’Apostolo ci indica, ci traccia un itinerario di valori morali in una specie di sintetico “vademecum”.
Lo rileggiamo come appello alla coscienza di tutti:
“La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene: amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per la necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto”. (Lettera ai Romani 21, 9-15).
Ecco un tracciato di impegno per tutti noi.
Alla nostra città siamo debitori di questa robusta presenza.
“Non possiamo adagiarci- scrivo nella Lettera Pastorale- sugli allori della storia” , anche se ci accingiamo a celebrare i nove secoli di questo splendido Duomo.
È un impegno epocale che ci viene richiesto da un tale avvenimento.
L’impegno ad essere “chiesa in mezzo alla città”, chiesa nel mondo contemporaneo, chiesa per l’uomo e per la gente, chiesa calata nella storia come la “città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa per il suo sposo”. (Apoc 21,4).
Sì, la “dimora di Dio con gli uomini” (Apoc 21,4).
Una chiesa- la nostra- in mezzo alla città.

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