Quando dicevamo: mai più

Ad ogni anno che si apre, è istintivo che con il rituale scambio degli auguri, si rechino ragioni di speranza e di impegno per il cambiamento.
Perché nella società in continua rapida evoluzione nella quale siamo impegnati a spendere questi nostri anni, il senso del cambiamento è d’obbligo: un’esigenza quasi assoluta.
Per un foglio di collegamento tra gli ideali della Resistenza e le tensioni ideali di questi ultimi anni del secolo il tema nodale del cambiamento mi pare non possa essere che la pace.
Allora, per avere la pace nella giustizia e nella libertà, si dovette lottare, sparare, far la guerra.
“Extrema ratio” di fronte ad un rischio di prepotenza istituzionalizzata e di barbarie erette a sistema.
Dove s’è visto per altro, che pace non significa né indifferenza, né pavidità, né dimissioni, né arrendevolezza, né compromissione.
Pace è virile e coraggioso impegno di giustizia.
E tuttavia da allora, quando anche un cattolico come Olivelli imbracciava il fucile giustificandosi “ribelle per amore” è passato ormai quasi mezzo secolo e credo si possa dire che molte cose sono cambiate.
Si è perrfino incrinata la consapevolezza che un valore (qualunque esso sia, dalla fede alla libertà, dalla democrazia al pluralismo) possa essere difeso con le armi: si è incrinato cioè lo stesso cardine su cui si costituì la resistenza come fatto d’arma giustificato dall’altrui violenza.
Oggi dopo secolari esperienze di violenza contro violenza, di muro contro muro, di armi contro armi, si sta diffondendo una cultura di pace assoluta, della non violenza come sistema, dell’inammissibilità del vecchio concetto di guerra difensiva, del superamento di antichi dogmi come quello abusato del “si vis pacem para bellum”.
Che cosa è intervenuto dalla resistenza ad oggi in tema di pace?
Certe volte me lo domando.
Si tratta solo di una moda convenzionale che può prosperare proprio perché viviamo un tempo di pace protetta e di libertà garantita?
Si tratta di un quadro culturale astratto e teorico (tanto la pace non è in concreto minacciata, anzi – in concreto – è ben difesa da “scudi” di vario spessore?)
O si tratta, peggio ancora, di un doppio gioco di parole per cui in teoria si è pacifisti e, sotto banco, si finanziano le armerie e gli arsenali?
O, infine, è solo questione di paura, di una folle paura del conflitto totale da cui più nessuno, a causa della micidialità tecnologica propria del nostro tempo, potrebbe sperare di star fuori scena e salvare la propria vita?
Interrogativi amari, come si vede, e anche un po’ provocatori.
Una cosa è certa che, qualunque lettura interpretativa si possa dare al fenomeno, il fenomeno c’è: è la prevalenza della cultura della pace su quella della guerra.
Per paura o per fariseismo, per convinzione o per necessità, a quarant’anni dalla “ribellione per amore” quando i giovani impugnarono le armi per riscattare la libertà di questo nostro popolo, la nuova cultura della pace mette in discussione perfino le sorgenti di qualunque violenza, anche a fin di bene.
pace sopra tutto.
E’ un passo indietro rispetto a quegli anni in cui valore e fegato si coniugavano con la guerriglia e la sfida alla morte a viso aperto?
Penso di no. Penso che la pace – anzi la cultura della pace – sia un fiore sbocciato nelle radici doloranti della nostra Resistenza. Quando dicevamo: mai più.
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Germano Zaccheo
(editoriale apparso sul n. 1 di “Resistenza unita” nel gennaio 1987)

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