Il Signore che viene (Messaggio del vescovo per la Pasqua 2002)

C’è una trilogia anche in questa Domenica pasquale come già nella festa dell’Epifania, quando la liturgia ci aveva pronosticato il giorno della Pasqua.
Tre infatti erano le manifestazioni di Gesù (ai Magi, al Giordano, a Cana) e tre sono le parole che reggono questa liturgia pasquale: Battesimo, Spirito e Sangue.
Abbiamo infatti pregato così nell’orazione introduttiva (la “colletta”):
“perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti”.
Comprendere dunque l’inestimabile ricchezza di queste realtà che connotano la santa Pasqua è l’impegno di questa giornata che ne compie la solenne ottava.
Se osservate i verbi che esprimono le tre realtà del mistero che celebriamo, essi sono piuttosto sinonimi: purificare, rigenerare, redimere.
Sono verbi che indicano tutti e tre, con qualche sfumatura diversa, gli effetti che la Pasqua del Signore produce in noi.
Nel segno dell’acqua battesimale (simbolo carico di emozioni nella celebrazione della Veglia Pasquale) noi in effetti siamo purificati dal peccato.
Ma è nello Spirito Santo che noi siamo rigenerati, come dice il vangelo di Giovanni nell’episodio di Nicodemo: “Se uno non nasce da acqua e da Spirito Santo”… (Gv. 3,5).
E infine è il sangue di Cristo, versato interamente nella sua Pasqua e reso attuale nel memoriale eucaristico, che ci redime, riscattandoci da ogni colpa.
Dunque, i tre verbi che si affiancano alle tre realtà salvifiche (Battesimo, Spirito e Sangue) esprimono bene il messaggio pasquale incentrato attorno al Cristo Risorto.
È lui infatti il centro della nostra attenzione, mentre ci accingiamo a vivere questo tempo pasquale.
Tenere fisso lo sguardo su Gesù, vorrà dire, soprattutto in questo tempo, lasciarci illuminare dal fulgore della sua Pasqua, di morte e di risurrezione.
L’evangelista Giovanni nel capitolo 20 del suo Vangelo, di cui in questa Domenica, abbiamo letto l’ultimo episodio, ci svela il mistero del Risorto attraverso quattro quadri, in stretta connessione fra loro.
Nella prima scena sono protagonisti Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro e vedendolo vuoto, con il solo bianco lenzuolo (una “sindone”) abbandonato a terra, vuoto, credono, come folgorati da quei segni.
Nella seconda scena è Maria di Magdala che, chiamata per nome, riconosce il Maestro e ne riceve il mandato di andare ad annunciare la Risurrezione.
Poi, verso la sera di quello stesso giorno, tocca agli apostoli, asserragliati per paura, ad essere rallegrati dal Signore che “mostrò loro le mani e il costato” (Gv. 20,20).
Ma quella sera non c’era Tommaso, e sulle sue affermazioni incredule, si introduce la quarta scena, quella di oggi.
Gesù invita Tommaso non solo a guardare ma anche a toccare, come egli si era provocatoriamente espresso.
E Tommaso cade in ginocchio adorando, mentre risuona la nuova beatitudine: “Beati quelli che, senza vedere, crederanno!” (Gv. 20,29).
La fede è ben più che vedere, udire, toccare. La fede è adorare.
A noi che né abbiamo visto, né abbiamo udito, né abbiamo toccato con le nostre mani, basta la parola dell’apostolo Pietro che abbiamo udito nella seconda lettura di questa domenica pasquale.
A proposito della “manifestazione di Gesù Cristo” (la sua pasquale Epifania) Pietro ci rassicura: “Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in Lui” (1 Pt. 1,8).
Invitati a fissare lo sguardo su di Lui, il Risorto, ci basta la testimonianza con cui si apre la I° Lettera di Giovanni: “Ciò che era da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato – ossia il Verbo della vita – (…) noi lo annunziamo anche a voi… (I Gv. 1, 1-3).
Voi, fratelli e sorelle che leggete o ascoltate questo messaggio pasquale realizzate la beatitudine evangelica: credere.
E questa fede vi pone – ci pone – nell’atteggiamento della speranza, poiché egli è la nostra speranza.
“Surrexit Christus, spes mea”.
Cristo Risorto è la mia speranza.
Viviamo infatti nel tempo tra la sua Pasqua di Risorto e il giorno del suo ritorno, di Giudice: viviamo nell’attesa della sua venuta.
Spezzando il pane della Sua Presenza, anche oggi, nella celebrazione eucaristica, cantiamo il “Mistero della fede”.
“Annunciamo la Tua morte,
proclamiamo la Tua Risurrezione
nell’attesa della Tua venuta”.
Sì, il Risorto è il Veniente: Colui che “viene sulle nubi” e, come aggiunge l’Apocalisse, “ognuno la vedrà, anche quelli che la trafissero”. (Apoc. 1,7).
Tener fisso lo sguardo su di Lui, colui che è risorto dai morti e verrà nella gloria, ecco l’impegno palpitante di tutti coloro che credono e, per questo, sono proclamati beati.
Siamo un grande popolo di credenti, una comunità che, come quella di cui ci parla Luca esprime nel mondo una presenza testimoniante.
Come allora, anche oggi “tutti coloro che erano diventati credenti, stavano insieme, assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera”. (Atti, 2,42).
Ecco una chiesa autentica, ecco la Chiesa che dobbiamo essere anche noi, eredi di quella comunità di uomini e di donne che per primi credettero in Gesù.
Gli Orientamenti Pastorali che i vescovi italiani ci offrono per il nuovo decennio illuminano con chiarezza questa realtà di chiesa, collocata fra Pasqua e Parusia. Dicono:
Noi viviamo tra il giorno della risurrezione di Cristo e quello della sua venuta. Egli è colui che verrà alla fine dei tempi, per portare a compimento in tutto il creato la volontà del Padre. Per questo il cristianesimo vive nell’attesa, nella costante tensione verso il compimento; e dove tale attesa viene meno c’è da chiedersi quanto la fede sia viva, la carità possibile, la speranza fondata. Gesù è colui che è venuto, viene e verrà. È venuto nell’Incarnazione, verrà nella gloria e nel frattempo non ci lascia soli: egli continua a venire a noi nei doni del suo Spirito, nella predicazione della parola di verità, nella liturgia e nei sacramenti, nella comunione attorno ai pastori nella Chiesa, nell’esperienza della sua misericordia che a ciascuno è possibile fare, per grazia, nell’intimo della coscienza. San Bernardo di Chiaravalle parla, con termini assai indovinati, di un medius adventus
[1], di un dolce e misterioso venire a noi già oggi del Verbo, che ci visita per confortarci e darci forza nel cammino della vita. Così dice la liturgia: «Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno»[2].

Sì fratelli e sorelle, questa è la “beata speranza” che sostiene ogni cammino.
Di questa speranza dobbiamo rendere ragione ai nostri fratelli, alle nuove generazioni, in questo “mondo che cambia”.
A tutti, dicono i vescovi, vogliamo recare una parola di speranza”.
La parola di speranza è Gesù: l’inviato del Padre, il Signore che viene.


+ Germano
vescovo


P.S. Dispongo che questo messaggio, già previsto nella lettera Pastorale “Un volto, un nome, una speranza”, sia letto in tutte le chiese della diocesi, la Domenica “in Albis” 2002 e che ne sia diffusa tra i fedeli l’edizione a stampa, reperibile presso la Curia Diocesana.

[1] SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermo V in Adventu Domini, 1.
[2] MESSALE ROMANO, Prefazio dell’Avvento I/A.

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