CHIESA FRA LA GENTE

Carissimi fratelli e amici,
perché sento il bisogno di scrivervi ancora una lettera?
L’ispirazione mi è venuta da alcuni di voi, dico di voi sacerdoti, quando mi avete chiesto di interpretare per la nostra Chiesa il Convegno di Verona a cui ci siamo prepararti con impegno e di cui abbiamo voluto cogliere il messaggio nel recente nostro Convegno Diocesano, nella prima settimana di novembre.
Ed insieme mi urge scrivervi all’apertura ormai dell’Anno Centenario del nostro Duomo, avvenimento che non abbiamo voluto passare sotto silenzio, tanta è la sua importanza civile, culturale, religiosa.
E all’idea di scrivervi una lettera, un po’ fuori dai tempi e modi delle “Lettere Pastorali” mi torna alla mente quella suggestiva pagina dell’Apostolo Paolo quando scrive, per la seconda volta , alla comunità di Corinto:
“La nostra Lettera siete voi,
lettera scritta nei vostri cuori,
conosciuta e letta da tutti gli uomini.
È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo,
scritta non con inchiostro,
ma con lo Spirito del Dio vivente,
non su tavole di pietra,
ma su tavole di cuori umani.
(2 Cor. 3,23).

La lettera siamo noi, Chiesa di sant’Evasio, mentre celebriamo nove secoli di storia del nostro Duomo, rievocando la lunga serie dei nostri santi che hanno lasciato in questo territorio la traccia della santità di Cristo.
Alla gente di oggi, spesso indifferente o distratta, talora immemore delle proprie radici cristiane e in ogni caso tentata da un materialismo dilagante, le pietre antiche del nostro Duomo, possono ancora essere una lettera scritta “non su tavole di pietra ma su tavole di cuori umani”?
Io credo e spero di sì.
I nostri cuori, infatti, sollecitatati ad essere, anche per l’oggi “testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” possono essere la lettera che la gente attende, mentre sente crescente il bisogno di speranza.
E noi diremo loro, come fossimo una lettera “scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” che Gesù Risorto continua ad essere nei secoli (ben oltre ancora i nove lunghi secoli della storia del nostro Duomo) “la speranza del mondo”.
Il Convegno di Verona
Questo infatti ha voluto dirci il Convegno ecclesiale delle Diocesi di tutta Italia, recentemente celebrato a Verona.
Dalle molteplici provocazioni che ci sono venute da quell’evento, cercheremo di raccoglierne alcune: quelle più urgenti per la nostra comunità.
Ma prima cerchiamo di raccontare, sia pure in grande sintesi ciò che effettivamente è avvenuto a Verona in quelle giornate dal 16 al 20 ottobre u.s.
Poi cercheremo di individuare alcune piste di interpretazione, soprattutto richiamandoci le tre belle serate del nostro Convegno Pastorale di novembre.
Infine, nella terza parte di questa lettera mi sforzerò di indicare alcune prospettive pastorali per la nostra Chiesa diocesana.
I. LA CRONACA DELL’EVENTO
Ed eccoci alla prima tappa: un po’ di racconto.
Vado un po’ per rapide pennellate.
Ma non posso tralasciare il folgorante inizio, dentro il grande catino dell’Arena dove si è svolta l’assemblea di apertura.
Un simbolo, anzitutto: la “nube dei Testimoni” (Ebr. 12,1).
Prima li abbiamo invocati i nostri Santi: tutti i santi protettori delle Diocesi italiane, oltre duecento. Una litania interminabile e suggestiva (c’era anche il nostro Sant’Evasio!).
Il punto più alto di commozione è stato però alla fine della serata: ormai era buio. E mentre l’orchestra e il coro dell’Arena attaccavano il celebre “Regina Coeli” di Mascagni (dalla “Cavalleria Rusticana”) si sono accese tutte le icone dei santi nello scenario della grande Arena veronese.
Si direbbe un “coup de theatre” se non fosse stata una verità: la Chiesa dei Santi.
E già che ci siamo con i Santi, vi faccio pensare a quello splendido viale che ogni giorno ci introduceva ai grandi ambienti del Convegno, nell’immensa area della Fiera.
Lì c’erano a destra e a sinistra dell’immensa folla (3.000 persone circa) che si recava ai lavori assembleari, sedici gigantografie di uomini e donne che, nel secolo appena passato, sono stati testimoni di vita cristiana nei vari campi della vita laicale: i santi del nostro tempo.
C’era La Pira, il sindaco santo di Firenze; c’era Marcello Candia, l’industriale lombardo andato in Brasile a fondare un lebbrosario; c’era Gesualdo Nosengo, piemontese, educatore e pedagogista, uomo della scuola; c’era quel Giovanni Palatucci., il questore che salvava gli ebrei e ci ha rimesso la vita.
Tanti (sedici) erano, ognuno con una biografia da brividi.
Arte e liturgia

Un’altra componente del Convegno era la dimensione artistica e liturgica con un carico di suggestioni che la cronaca non è riuscita ad evidenziare.
Le grandi assemblee al mattino e alla sera erano un popolo, che pregando e cantando in profonda unità di spirito, dava di sè la migliore immagine: una Chiesa in adorazione.
Il culmine fu l’assemblea liturgica allo stadio, presieduta dal Papa : una festa di popolo. Il popolo cristiano.
E poi l’arte. Belle mostre tutte da ammirare e da capire, come l’icona del Convegno che ha lasciato molti stupiti: un evanescente figura di uomo emergente dalla luce come lo sbocciare di un fiore a primavera. Il Risorto!
Per l’arte va segnalato soprattutto lo straordinario “oratorio” del Maestro Colla , compositore alessandrino che, sulle parole del poeta Mussapi, anch’egli piemontese, ha costruito un’opera mirabile: “Resurrexi” che coro e orchestra scaligeri hanno eseguito con straordinario effetto artistico.
Il Papa e gli altri
Ma la cronaca deve recensire anche i grandi interventi magisteriali.
Quello del Papa , anzitutto, che ha dominato il Convegno con un intervento di grandissimo impegno e spessore, arricchendolo poi ulteriormente con la lucida omelia allo Stadio.
Ma col Papa , sono da raccontare anche altri importantissimi interventi: l’ apertura ufficiale del Card. Tettamanzi, le conclusioni articolate e impegnative del Card. Ruini: due pilastri.
Poi la relazione del teologo Brambilla, contrappuntata dai tre interventi: uno spirituale (BIGNARDI),uno culturale (ORNAGHI) uno socio-politico (PEZZOTTA).
E fin qui i momenti espositivi.
Ma il Convegno è consistito soprattutto nei lavori di gruppo, nei cinque ambiti (affettività, lavoro e festa, fragilità, tradizione e cittadinanza) che, dopo le relazioni introduttive ad ogni ambito, hanno visto impegnati, a gruppi di lavoro, tutti i quasi tremila delegati.
Un lavoro durato un giorno e mezzo con arricchimento di interventi di grande qualità e spessore.
Così davvero si può dire che le quattro giornate del Convegno sono state ampiamente condivise e approfondite.
Uno straordinario impegno organizzativo e un eccezionale evento di una Chiesa davvero di popolo.

II. L’INTERPRETAZIONE DELL’EVENTO
Tentare di dare un’interpretazione il più possibile corretta di un evento così ricco e e complesso è perfino un po’ temerario.
Eppure è necessario perché in quei giorni e un po’ anche dopo, sono girate nei media italiani interpretazioni cervellotiche e false.
Lo ha detto bene e con ineccepibile documentazione al nostro Convegno di novembre il giornalista di “Avvenire” Umberto Folena.
E senza riprendere tutte le sue argomentazioni voglio qui ricordare una cosa sola: leggendo i giornali italiani in quei giorni (eccezione fatta per pochissimi, tra cui- solitario- “Avvenire”) si aveva del Convegno un’interpretazione che a dire distorta è dir poco .
Perciò, almeno in rapidissima sintesi voglio qui riprendere alcune interpretazioni offerte al nostro Convegno pastorale da parte del sociologo Luca Diotallevi e del vescovo di Novara Mons. Corti.
Sono interpretazioni che hanno tra loro una singolare parentela per la serietà dell’impegno e per certe profonde consonanze spirituali.
La mia è una forte sintesi, ma spero di aver raccolto almeno i punti essenziali.
Tre sono le parole-chiave che, secondo il Prof. Diotallevi, possono servire per interpretare Verona: adorazione, decentramento, discernimento.
Dell’adorazione ha parlato il Papa dando corpo a tutte le riflessioni emerse nei vari interventi. Si tratta in definitiva di poggiare su Cristo morto e risorto tutta l’azione pastorale della Chiesa. E non è quella cosa ovvia che sembra a prima vista.
Il Papa infatti ha osservato che il pericolo della secolarizzazione non viene solo dall’esterno: esso rischia di intaccare anche l’azione dei cristiani e la loro stessa fede che, in certo modo, corre il rischio anch’essa di secolarizzarsi.
Urgente è perciò “l’adorazione prima di ogni attività e di ogni programma”.
Il secondo pilastro è la coscienza che siamo Chiesa non per noi stessi, ma per l’uomo, la società, il mondo.
Diotallevi ha fissato il concetto con una parola provocatoria “decentrarsi” .
È quello che si chiamava una “Chiesa estroversa” che non si concentra su se stessa (se mai sul Risorto!) ma si “decentra” verso l’uomo, il suo destino, la sua vicenda storica.
A questa prospettiva si agganciano i quattro capitoli sostenuti- come centrali- da Mons. Corti.
Anzitutto è il riferimento antropologico che è stata una costante nell’ultimo decennio ed è rimbalzato continuamente negli interventi di Verona. Torna qui gran parte dell’Enciclica “Redemptor hominis ” basilare per il pontificato di Giovanni Paolo II: “l’uomo via della Chiesa”.
Da qui la particolare attenzione data al sociale e alla responsabilità politica: un tema serpeggiato in tutti gli interventi ed esplicitamente toccato anche dal Papa nel senso di un autentico servizio all’uomo e alla società.
Servizio duplice, per altro: di una fede educante e di un amore operoso, che costituiscono l’originalità della presenza cristiana nella storia.
Tutto ciò è possibile- concludeva Diotallevi- se si riesce ad esprimere quell’orientamento già emerso nel precedente Convegno di Palermo: il discernimento cristiano e comunitario.
Piste tutte che danno al Convegno di Verona un ruolo innovativo nello sviluppo di tutto il cammino postconciliare.
È infatti al Concilio che occorre tornare per trovare la vera sorgente del rinnovamento pastorale esigito dal “mondo che cambia”.

III. LE PROSPETTIVE PASTORALI.
È forse meglio dire un tentativo di progettazione pastorale per la nostra Diocesi a partire dal Convegno Ecclesiale di Verona.
Sono alcune indicazioni pastorali di fondo che il Vescovo esprime come suo personale (ma autorevole) contributo applicativo dei grandi contenuti del Convegno alle urgenze della nostra pastorale diocesana.
Consistono in una premessa e in una conclusione all’interno delle quali stanno tre tesi assiomatiche.
La premessa.
Potrebbe essere riassunta così: “speranza, sì, ma come?”.
Nella sua prolusione, ricca e articolata, il Card. Tettamanzi ha detto: “Parliamo non solo di speranza, ma anche e soprattutto con speranza”.
È la mia scelta preliminare perché percepisco che di speranza abbiamo bisogno tutti: nel mondo intero, certo, ma anche qui da noi.
Con speranza, dunque.
Sia la città e il territorio, che le nostre stesse comunità ecclesiali- lo ribadivo nell’Omelia di sant’Evasio- deve ritrovare la speranza.
Non dico la speranza facile e un po’ sciocca di chi non vuole vedere i problemi, ma la speranza che sa stare dentro ai problemi.
In città e nel territorio monferrino pesa da tempo un certo clima di disfattismo: tutto va male, tutto è precario.
Siamo una comunità anziana , sempre più in basso quanto a natalità.
Siamo una città che sta perdendo ora un’istituzione, ora un’altra
Dal regresso demografico a quello istituzionale, il passo è breve anche ad altre ”sofferenze” della nostra comunità:tra tutte la tragedia dell’Eternit , causa accertata di una serie ininterrotta di morti per l’infausto mesotelioma.
Qualche ragione di sofferenza è dunque evidente fino a generare quell’atteggiamento talvolta un po’ vittimista, che scoraggia l’opinione pubblica.
Dobbiamo darci una scossa: dentro alle situazioni difficili si vede l’orgoglio di una comunità e il suo spirito di reazione: così anche per qualche cedimento sul piano occupazionale e per il non facile inserimento di un’immigrazione che si fa notare sempre di più.
Occorre reagire: e la predicazione della speranza a cui è chiamata la comunità cristiana può essere l’occasione propizia.
Senza dire che anche la nostra Chiesa deve saper affrontare “con speranza” anche i suoi problemi interni.
Penso alla scarsità di vocazioni sia religiose che presbiterali: queste ultime rendono molte popolazioni allarmate per la carenza di sacerdoti, sempre più pochi, ma anche sempre più anziani.
Dico di queste, ma si potrebbe anche enumerare altre preoccupazioni: molte delle nostre belle chiese chiedono talvolta interventi che vanno oltre le nostre disponibilità economiche; la pastorale soprattutto verso le giovani generazioni è spesso in difficoltà , soprattutto in un certo generalizzato abbandono dei ragazzi, subito dopo la Cresima; le difficoltà in cui si trova l’associazionismo laicale (a cominciare dall’Azione Cattolica) e la continua diminuzione delle presenze domenicali dei fedeli.
Questa e molte alte preoccupazioni tarpano le ali alle nostre speranze.
È giusto, quindi e urgente che il messaggio della speranza, che ci è giunto da Verona, sia accolto e amplificato con il civile coraggio di tutti.
Trovo che una pagina della prolusione del card. Tettamanzi faccia anche al nostro caso. La trascrivo:
“La speranza come stile virtuoso è parte essenziale e integrante del realismo cristiano. Certo, nessuno di noi può minimamente negare o attenuare l’esistenza dei tantissimi mali, drammi, pericoli crescenti e talvolta inediti dell’attuale momento storico – l’elenco non terminerebbe mai –, ma tutti, grazie alla presenza indefettibile di Cristo Signore e del suo Spirito nella storia d’ogni tempo, possiamo e dobbiamo riconoscere che la speranza non è solo un desiderio o un sogno o una promessa, non riguarda unicamente il domani, ma è una realtà molto concreta e attuale, che non abbandona mai la nostra terra: le persone, le famiglie, le comunità, l’umanità intera, soprattutto la Chiesa del Signore.
È dunque nella coscienza umile dei nostri ritardi, fatiche, lentezze e inadempienze e nel segno di un’immensa gratitudine al Signore e di una fiducia incrollabile nel suo amore che siamo chiamati a vivere questo Convegno nell’orizzonte della speranza. Chi ha occhi e cuore evangelici vede e gode del numero incalcolabile di semi e germi e frutti e opere concrete di speranza che sono in atto nei più diversi ambiti delle nostre Chiese e nella nostra società. Ci sono tantissime persone e gruppi che continuano a scrivere “il Vangelo della speranza” nelle realtà e nelle vicende più disagiate e sofferte della vita quotidiana. Possiamo allora applicare qui quanto leggiamo nell’esortazione Christifideles laici: «Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso: quello di tantissimi laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d’ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi – certo per la potenza della grazia di Dio – della crescita del regno di Dio nella storia» (n. 17).” (dalla prolusione del card. Tettamanzi)
Le tre indicazioni
Dentro la logica di queste premesse colloco ora, prima sinteticamente e poi analiticamente, le tre indicazioni pastorali che, come Vescovo, intendo suggerire per la nostra Chiesa.
Sono concatenate fra loro ed emergono abbastanza chiaramente dal capitolo delle interpretazioni del Convegno di Verona che abbiamo raccolto e sintetizzato nel Convegno Pastorale.
Le esprimo con tre caratteristiche che la nostra Chiesa potrebbe fraternamente assumere.
Dico anzitutto che vorrei una “Chiesa concentrata su Cristo” : così che emerga con assoluta verità la centralità del Risorto, speranza del mondo.
Poi immagino una “Chiesa decentrata sull’uomo” e vorrei quasi dire dichiaratamente esposta verso tutto ciò che è umano, seguendo l’insegnamento conciliare della “Gaudium et Spes”.
E se la prima caratteristica definisce la Chiesa come comunione (su cui tanto si è insistito a Verona) e la seconda la definisce come missione , vorrei che la terza caratteristica ne definisse il “servizio”.
Così la definirei una “Chiesa tutta ministeriale”in cui cioé tutti, non solo il parroco e pochi altri, si sentano impegnati al “servizio” proprio nel senso ministeriale della parola, superando così il rischio di un ritorno improvvido di un serpeggiante clericalismo.
Analizzo ora, con maggior precisione ciascuna di queste indicazioni pastorali, che mi pare possano dare concretezza alla nostra Chiesa nel senso della testimonianza e della speranza.
1. Una Chiesa “concentrata su Cristo”
È questa l’indicazione essenziale e primordiale.
Il teologo Franco Giulio Brambilla l’ha detto esplicitamente nella sua relazione
La centralità del Crocefisso risorto è ciò su cui sta o cade il futuro della Chiesa e la testimonianza nel mondo.
Le forme dell’annuncio del Vangelo, l’esperienza della celebrazione cristiana, il modo di essere e fare la Chiesa devono essere il luogo in cui gli uomini e le donne d’oggi sono rigenerati a vita nuova e sono messi in grado di creare legami di fraternità e di nuova presenza nel mondo. Ciò trova spazio in una diffusa scoperta dell’im­portanza della vita spirituale delle persone. Nel tempo postconciliare è consolante vedere quante persone semplici, nella vita personale, nella ricerca della vocazione, nella famiglia, nella professione laicale, hanno riscoperto la fame della Parola, il bisogno di una liturgia viva, il gesto ripetuto della carità e la passione dell’impegno sociale.
È detto bene, è detto chiaro.
Qui sta il fondamento.
Del resto cito alcune frasi con cui il Papa stesso ha fortemente sottolineato questa “centralità” del Risorto.
“Avete compiuto una scelta assai felice- ha detto nel suo importante intervento- ponendo Gesù Risorto al centro dell’attenzione del Convegno e di tutta la vita e la testimonianza della Chiesa in Italia.
La risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana dall’inizio e fino alla fine dei tempi”.
Al Papa ha fatto eco con insistenza e fedeltà il Card. Ruini nella sua relazione conclusiva del Convegno. E sulla stessa onda tutti gli interventi hanno finalizzato questa “centralità” del Risorto.
Si tratta allora di “ricentrare” su Gesù ( e su lui solo) l’azione pastorale nelle nostre comunità parrocchiali.
Non è tempo perso nè programma ripetitivo. Alla sorgente bisogna sempre tornare, come ribadiva il messaggio alle Chiese particolari in Italia:
“Su questa esperienza del Signore risorto si fonda la nostra speranza.
La nostra speranza, infatti, è una Persona: il Signore Gesù, crocifisso e risorto. In Lui la vita è trasfigurata: per ciascuno di noi, per la storia umana e per la creazione tutta.
Su di Lui si fonda l’attesa di quel mondo nuovo ed eterno, nel quale saranno vinti il dolore, la violenza e la morte , e il creato risplenderà nella sua straordinaria bellezza.
Noi desideriamo vivere già oggi secondo questa promessa e mostrare il disegno di un’umanità rinnovata, in cui tutto appaia trasformato”.
A questa centralità è riconducibile l’appello del Papa all’adorazione, quando ha detto: “prima di ogni attività e di ogni nostro programma deve esserci l’adorazione, che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire”.
La conseguenza di questo ricentramento su Cristo è la priorità della “comunione nella Chiesa”.
Comunione fondata su Cristo, ma esteta a tutto il popolo credente.
Di questa profonda comunione ecclesiale c’è bisogno anche in tutte le nostre comunità.
Ne ha parlato a lungo e con grande passione il Card. Tettamanzi nella prolusione del Convegno.
“Siamo consapevoli che l’essere oggi “testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” domanda una comunione missionaria tra le diverse categorie di fedeli più compattata e dinamica, più libera e insieme strutturata, più convinta e convincente, più visibile e credibile. Non si dà testimonianza cristiana al di fuori o contro la comunione ecclesiale!
Una comunione, questa – lo dobbiamo marcare con forza –, che nel suo spirito interiore e nel suo realizzarsi storico fiorisce e fruttifica sempre e solo come triade indivisa e indivisibile di comunione-collaborazione-corresponsabilità. La comunione ecclesiale conduce alla collaborazione: dall’anima e dal cuore alle mani, ai gesti concreti della vita, alle iniziative intraprese, in una parola al dono reciproco e al servizio vicendevole (cfr. Romani 12,9ss). E, a loro volta, comunione e collaborazione non possono non portare a forme di vera e propria corresponsabilità, perché l’incontro e il dialogo sono tra soggetti coscienti e liberi, tra le menti che valutano la realtà e le volontà che liberamente affrontano e forgiano la realtà stessa, e dunque nell’ambito del discernimento e della decisione evangelico-pastorali. Certo, una corresponsabilità nella quale sono diverse le competenze e diversi i ruoli dei vari membri della Chiesa, ma sempre un’autentica corresponsabilità”.
Tutto chiaro, dunque: dal “ricentrarsi” nel Risorto nasce per la Chiesa il dono e l’impegno della comunione ecclesiale.
E la “triade” (comunione-collaborazione- corresponsabilità) rappresenta una pista di lavoro, anche per noi, molto concreta e, vorrei dire, quasi immediatamente praticabile.

2. Una Chiesa “decentrata” sull’uomo.
Se c’è una caratteristica peculiare di questo Convegno ecclesiale è quella di una sua particolare attenzione alla condizione sociale e culturale delle persone che vivono oggi in Italia.
La Chiesa cioé si è interpellata sulla sua capacità (e soprattutto sul suo dovere) di essere testimone di speranza per la nostra gente.
Per questo il grande spazio dato agli ambiti (sia con le loro prolusioni e conclusioni da parte degli esperti, sia con il largo spazio dato all’assemblea attraverso i gruppi di lavoro) ha voluto essere un modo di impegnarsi tutti all’attenzione verso “le gioie e le speranze” dell’umanità di oggi.
Citatissimo infatti l’incipit della “Gaudium et spes” che può bene essere indicato come il motto ideale del Convegno: Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Per ciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia. (G. et .S n.1)
Così abbiamo potuto intercettare l’uomo, che Giovanni Paolo II aveva indicato con la “via della Chiesa” Una Chiesa, diremo, “sbilanciata” sull’uomo.
O, per meglio dire una “Chiesa estroversa” che più si radica nel Risorto più si espone sulla condizione umana a cui annunciare la speranza.
I cinque ambiti di Verona diventano così le “cinque vie” di una Chiesa “decentrata” da se stessa verso l’uomo da salvare.
E basterà uno sguardo fugace a quegli ambiti, dentro cui annunciare la speranza, per convincerci che il nostro impegno di Chiesa è proprio questo: decentrarci verso la gente.
Tutto l’ambito dell’affettività , oggi ci fa intercettare l’uomo e i suoi problemi esistenziali: l’amore, la sessualità, il matrimonio, il rapporto uomo-donna, la condizione giovanile, l’essere genitori e figli, il circondare d’amore malati e anziani.
C’è un vastissimo campo per il nostro ministero ecclesiale.
Com’è della questione sociale, del lavoro e della festa, del tempo da vivere e non da sprecare, delle incertezze di fronte alla scarsità delle risorse.
Un ambito spesso problematico che nel tempo della globalizzazione diventa spesso drammatico.
E drammatico è sovente, anche intorno a noi, la condizione di fragilità in cui vive la gente: i poveri, gli immigrati, gli emarginati, i senza casa e senza amore, i malati di ogni genere e specie. Insomma gli “ultimi” della nostra società ricca e ingiusta.
Quale enorme spazio di impegno per una Chiesa che voglia essere fedele alla parabola “Avete fatto.... non avete fatto” (Mt 25,)
Restano gli ambiti della socialità, della cultura, della politica.
La tradizione come consegna educativa di valori alle generazioni che si affacciano alla città.
La cittadinanza come apertura di solidarietà civile e politica.
E se è vero, come ha ribadito il Papa a Verona che “la Chiesa non è e non intende essere un agente politico” è però vero che “nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica”.
Come è evidente, solo una “Chiesa estroversa” può assolvere questi compiti.
E la nostra Chiesa tale vuole essere - come andiamo ripetendo in questo IX Centenario del Duomo- “Una Chiesa in mezzo alla città”.
Questo slogan, desunto dalla simbologia di un Duomo che da nove secoli sta al centro e al cuore della nostra città, può ben sintetizzare questa linea di impegno pastorale che chiaramente si esprime come “missionarietà”.
Il documento dei Vescovi italiani che descrive “il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia” trova in questo ordine di pensieri e di scelte il suo humus pastorale.

3. Una Chiesa tutta ministeriale.

A Verona, si è parlato molto e a lungo dei laici: cioè quei “Cristifideles laici” di cui Giovanni Paolo II ci aveva a lungo e profondamente parlato.
Ebbene sarà proprio questa la terza indicazione e linea di impegno per il nostro “dopo- Verona”.
Non è da oggi che ne parliamo, ma l’evento di Verona ci costringe a riprendere e approfondire questa tematica: “Una Chiesa tutta ministeriale”.
Si tratta di uscire da un inveterato “clericalismo” che appiattisce la Chiesa (e la parrocchia) solo sul clero: il prete e pochi addetti ai lavori.
È dal Concilio Vaticano II che questo sottile cancro del clericalismo viene battuto in breccia. Eppure è duro a morire.
Non si tratta di escludere i preti o di confinarli in sacrestia. Si tratta di uscire tutti, preti e laici, dalle nostre comode abitudini di sacrestia per andare “in mare aperto”, come dicevo nell’omelia di sant’Evasio, facendo eco all’invito di Papa Giovanni Paolo II dopo il Giubileo;
“Duc in altum” “Prendi il largo”.
Ma ciò è possibile ad una Chiesa (e ad una parrocchia) che non riduce i laici ad una dorata passività.
È nelle mani dei laici il ministero dell’evangelizzazione a tutto campo.
La parola magica è “servizio ecclesiale” e “cioé ministerialità diffusa”.
Il Prof Brambilla a Verona parlava di “immaginare la Chiesa come una comunità di popolo” e perciò tratteggiava il volto di una ministerialità a tutto tondo.
“Nell’ottica della testimonianza si potrà meglio mettere a fuoco la figura del laico. La vocazione laicale raccomanda la cura della formazione, il riconoscimento dei doni di ciascuno, la creazione di nuovi ministeri, la responsabilità che deve essere richiesta e riconosciuta, l’autonomia per l’impegno nel mondo, nella professione, nel terziario, nella pólis, nell’agone politico, negli spazi culturali, nella missione ad gentes. Il laico, come testimone, dovrà “immaginare” un triplice spazio di cura di sé, in particolare la sua vocazione formativa, comunionale e secolare”
E questa triplice connotazione dell’apostolato laicale ci interpella.
Formazione, comunione, secolarità: tre piste di lavoro anche per la nostra Chiesa e il nostro impegno pastorale.
Cito ancora il Prof Brambilla:
“Bisogna ritornare prima di tutto a riscoprire la vocazione formativa delle comunità cristiane. L’accento di novità del Convegno ecclesiale è quello di una formazione che abbia una forte armatura spirituale, che sappia rinnovarsi ai fondamenti della vita battesimale (la parola, il sacramento, la comunione), la radice che alimenta tutte le vocazioni e le missioni nella Chiesa . In secondo luogo, si dovrà coltivare la vocazione comunionale del laico. Mai come oggi, il laico deve partecipare al carattere corale della testimonianza, parlare i molti “linguaggi” della testimonianza”. E, infine, è urgente riattivare il genio cristiano del laico in Italia. Potremmo dire che il genio cristiano del laico si esprime nell’opera di uomini e donne che sono uno spazio personale e associato di discernimento vivo del Vangelo, dove avviene quel “meraviglioso scambio” tra le esperienze della vita e le esigenze del Vangelo.
Ecco tracciato un progetto, un piano di lavoro, un sentiero da percorrere.
E via via cercheremo di trovare la pista giusta per realizzarlo.
La conclusione.
Non poteva essere che questa: rivitalizzare le parrocchie.
Il documento dei vescovi italiani “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”, può fare da filo conduttore per le cose da fare e da riformare in questa direzione.
Ma anche da Verona sono giunte precise sottolineature in tal senso.
Ne parla chiaramente il teologo Brambilla quando tocca il tema della “popolarità del cristianesimo” in Italia
“La scelta prioritaria della missionarietà della parrocchia, con l’accento posto sul primo annuncio, l’inizia­zione cristiana e la domenica, va collocata dentro l’orizzonte di grande respiro per dare un volto evangelizzatore alla testimonianza ecclesiale. Per fare questo, la Chiesa italiana di questi anni ha deciso di privilegiare e coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica “popolare” del cattolicesimo italiano. Potremmo dire che tutto questo si riassume in un’unica indicazione: la Chiesa si sta prendendo cura della coscienza delle persone, della loro crescita e testimonianza nel mondo.
Occorre che questi gesti delle comunità cristiane favoriscano una cura amorevole della qualità della testimonianza cristiana, del valore della radice battesimale, dei modi con cui gli uomini e le donne, le famiglie, i ragazzi, gli adolescenti, i giovani e gli anziani danno futuro alla vita e costruiscono storie di fraternità evangelica. “Popolarità” del cristianesimo non significa la scelta di basso profilo di un “cristianesimo minimo”, ma la sfida che la tradizione tutta italiana di una fede presente sul territorio sia capace di rianimare la vita quotidiana delle persone, di illuminare le diverse stagioni dell’esistenza, di essere significativa negli ambienti del lavoro e del tempo libero, di plasmare le forme culturali della coscienza civile e degli orientamenti ideali del paese”.
E che cosa abbiano di più “popolare” nella nostra Chiesa della parrocchia, esperienza ecclesiale aperta a tutti, senza proscrizione per nessuno?
Abbiamo dunque una pista da percorrere: la rivitalizzazione, in senso missionario, delle nostre parrocchie.
Credo proprio che, pur con le dovute inevitabili integrazioni, la Parrocchia resti per noi, nel nostro territorio il terminale di Chiesa più vicino alla gente, più capace di interpretazione . Proprio puntando sulle Parrocchia come azione portante del rinnovamento pastorale nasce la proposta di una “pastorale integrata” a cui ha fatto ancora preciso riferimento il Card. Ruini.
Essa non si riferisce solo all’urgenza di mettere in rete le varie parrocchie, non più autosufficienti, realizzando nuove “unità pastorali”.
“Punta a mettere in rete- afferma il Card. Ruini- tutte le molteplici risorse umane, spirituali, pastorali, culturali, professionali non solo delle parrocchie, ma di ciascuna realtà ecclesiale e persona credente, al fine della testimonianza e della comunicazione della fede in questa Italia che sta cambiando sotto i nostri occhi”.
Bisognerà approfondire queste prospettive per rendere le nostre parrocchie sempre più capaci di un modello pastorale esigito dai tempi e che trova nella espressione “pastorale integrata” una formula capace di quella “conversione pastorale” di cui bene parlava il documento dei vescovi italiani per il decennio in corso: “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”.
La lettera è diventata un po’ lunga.
Ma i punti essenziali possono ben essere enunciati in forte sintesi.
Ciò che più di tutto conta è l’impegno di tutti noi per trovare le forme più adatte perché il contenuto essenziale di queste linee pastorali giunga il più possibile a tutti: almeno a coloro che hanno qualche interesse pastorale o culturale a questi problemi.
Con grande fraternità e amicizia saluto tutti, sacerdoti e fedeli, lieto se anche questo mio impegno potrà servire alle celebrazioni del IX Centenario del nostro Duomo, letto alla luce del tema che ci siamo proposti:”Una Chiesa in mezzo alla città”
E, al di là del simbolo, è questa la Chiesa che vogliamo essere, segno di speranza nel cuore della nostra gente.
Vi benedico tutti.

+ Germano
Vescovo


Casale, Epifania 2007


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